Capitolo 6

12 2 2
                                    

Ore 11.00
Il campanello suonato dal chierichetto Samuele annunciò l'arrivo di don Alderico sul sagrato. Il parroco di
Colleborghino Vistalago era un vecchietto ingobbito, che si teneva in piedi con la forza della fede e con
l'aiuto di qualche medicina. Del resto aveva avuto un ictus dieci anni addietro e ne portava ancora le
conseguenze (le avrebbe sopportate ovviamente per il resto della vita). Il vescovo della diocesi di Firenze lo
aveva inviato in quello sperduto paesino cinque anni prima, con l'intento di fargli terminare una splendida
carriera al servizio della Chiesa. Il curato aveva accettato di malavoglia, ma col tempo si era ambientato.
Adesso praticava con grande competenza e impegno assiduo il ruolo di buon pastore, con l'intento di
trainare con tutte le sue forze, le poche pecorelle del paese ai verdi pascoli dell'aldilà.
Ora, dall'altare, dette uno sguardo veloce sopra gli occhiali alle persone che prendevano parte alla funzione
" quanto sono poche... " pensò. In effetti, la bella giornata aveva dirottato qualche famiglia al lago. Marcavano
presenza le solite sette beghine, due famigliole al completo e un paio di vedovi. Sedici persone in tutto.
Avrebbe dovuto esserci anche Stella, se un assassino venuto da chissà dove non le avesse stravolto i piani.
D'altronde, non c'era da chiedere molto a quella chiesa di montagna, che don Alderico aveva
soprannominato "il ripostiglio di Dio", tanto era piccola. Sei panche da quattro, poste per orizzontale nella
navata sinistra, sei dall'altra parte, altre due piazzate per verticale a ridosso dell'altare. Una croce spartana,
una statua dal valore esclusivamente religioso e alcuni quadri appesi alle pareti che un anonimo pittore del
Seicento si era presa la briga di dipingere; dodici incisioni raffiguranti la Via Crucis, un affresco sbiadito e
un inginocchiatoio facevano parte del corredo. La sagrestia era una stanzetta di quattro metri per quattro.
" Nel nome del Padre... " don Alderico pronunciò la formula con cui dava inizio alla messa.
In quel momento, a pochi passi dalla chiesa, nel piccolo spiazzo antistante ad una villetta di un piano,
adagiata sul costone, con vista sul lago Borghino, Giacomo, un bel pezzo d'uomo di un metro e novanta
per centodieci chili di peso, detto Heavy Jack, stava tentando di accendere la sua vecchia auto " quattro per
quattro " che, con tutta la strada che aveva percorso, avrebbe coperto la distanza Terra/Luna e sarebbe
anche tornata indietro.
'' Porca metallica! '' sbottò il trentenne dando un'occhiataccia al cruscotto, che rimaneva irrimediabilmente
spento. Aprì dunque lo sportello e scese in uno stato di evidente alterazione. Aprì il cofano, lo mise in
sicurezza con l'apposita stanghetta e si chinò per guardare all'interno. I suoi lunghi capelli neri e lisci erano
legati in una coda di cavallo, che adesso gli penzolava davanti toccando quasi la coppa dell'olio.
'' Non ci capisco una beata mazza... " disse sbuffando. Toccò una leva lì, un dado là, sistemò un filo che gli
pareva staccato e già che c'era controllò pure i livelli.
'' Riproviamo. '' disse abbastanza convinto. Chiuse il cofano con un tonfo, si buttò di schianto sul sedile
malconcio e girò la chiave.
'' Porca metallicaaaa! '' gridò più innervosito di prima, sentendo solo il respiro affannoso di un motore che,
evidentemente, era guasto. Pum... puuuum! Heavy jack sgranò gli occhi nell'udire il rumore secco di
qualcosa che si rompeva là davanti e che suonò come un avvertimento. '' Lasciami in pace! '' sembrava dire
l'auto, esausta, sfinita o semplicemente svogliata, mentre sbuffi di fumo bianco, uscivano timidamente dal
vano motore.
'' E va bene... '' concluse Heavy Jack '' vorrà dire che per oggi farò a meno di te. ''
Il capellone scese, aprì la bauliera e riuscì finalmente a sorridere.
'' Dai bella, non tutto è perduto... '' si riferiva alla custodia di plastica dura, o meglio a quello che conteneva:
la sua splendida Explorer Sunbrust; corpo nero in tiglio, manico in acero, tastiera in palissandro, intarsi dot
in madreperla con la forma di bianche saette, ponte Floyd Rose e pick-up Humbucker, linea aggressiva. Era
il chitarrista di una metal band e, a mezzogiorno, era atteso giù in città dagli altri tre membri, per provare le
loro canzoni.
'' Il concerto di stasera sarà una bomba! '' disse caricandosi in spalla la sua amata produttrice di accordi
power e di assoli velocissimi. Prendere in prestito l'auto nuova di zecca della sua fidanzata, con cui
conviveva in quella graziosa villetta, questa era la magnifica idea che gli era venuta in mente. C'era solo da
salire in cucina e convincerla '' del resto le donne non sono così gelose della propria auto, come noi uomini... '' pensò
Giacomo inviando un grande sorriso alla piccola Smart rosa, parcheggiata di fianco al suo catorcio.
Nel frattempo, don Alderico si stava esibendo in un'omelia che lui giudicava interessante, ma che i fedeli
presenti avrebbero definito soporifera. Il sacerdote aveva estrapolato un salmo dalla bibbia, esaltandone le
qualità poetiche e i contenuti oltremodo attuali. Un paio di beghine si era dunque assopito e le loro teste
cedevano alla forza di gravità cadendo in avanti per qualche secondo, poi tornavano in posizione eretta,
quindi cedevano di nuovo, il tutto con gli occhi costantemente chiusi.
Un vedovo giocherellava col bastone da passeggio, tentando di infilarne la punta di gomma nell'incrocio
delle mattonelle. Un bambino spingeva la sua Ferrari in scala uno a diciotto sul ripiano delle panche usato
per inginocchiarsi. Suo padre leggeva il giornalino della parrocchia, che era venduto in fondo alla chiesa a
due euro, ma che non avrebbe mai comprato, giacché, secondo lui, faceva cacare. Una madre pensava al
vestito nuovo che aveva indossato la sera prima al matrimonio della cugina, chiedendosi se avesse suscitato
invidia in qualche sua amica, con tale scollatura mozzafiato. L'altro vedovo dormiva beatamente già da un
pezzo con la testa reclinata all'indietro e la bocca aperta. Due fratellini erano arrabbiati con i genitori perché
in quel momento avrebbero voluto essere al lago. Il resto annuiva con trasporto... o per abitudine. Don
Alderico terminò finalmente il suo discorso domenicale, lasciò la postazione al leggìo e tornò dietro l'altare.
Giacomo lasciò la sua adorata chitarra elettrica accanto alla porta ed entrò.
'' Maura... Mauraaaaaa... '' la fidanzata non rispondeva '' dovrebbe essere in bagno, per le donne il bagno è una stanza
sacra... '' disse tra sé scuotendo leggermente il capo. Percorse il corridoio, si guardò nello specchio ovale
posto sopra al cassettone di legno massello restaurato, si dette una lisciatina alla barba ben tenuta e si
diresse al bagno.
'' Maura, sei lì dentro? '' disse bussando piano alla porta. Silenzio.
'' Macché! '' fece lui un po' alterato. Andò in camera, la chiamò di nuovo, andò in sala '' niente... ma dove si è
ficcata? ''
Fu allora che qualcuno, '' un’ombra? '', attraversava l'ingresso. Heavy Jack si avvicinò allo stipite della porta
di sala e guardò.
'' Nessuno. Ah, me lo sono immaginato, sarà colpa delle birre di ieri sera... Mauraaaaaa... '' Silenzio. Uscì
dalla sala, tornò in cucina, nessuno. Trovò sul tavolo le chiavi della Smart e se le mise in tasca. Dopodiché
uscì da casa, rivide la chitarra appoggiata diligentemente, come se stesse riposando prima di una grande
prestazione, vide la sua auto ferma con un ricciolo di fumo che scaturiva dal radiatore, vide la bella e
invitante macchinina rosa.
'' Il garage, ma certo! Sarà in garage a pulire, spolverare, lucidare, con le sue cuffiette e l'i-pod... " Giacomo
si arrestò all'entrata del garage: c'erano lo spazio giusto giusto per l'auto di Maura, qualche ripiano con del
materiale vario, due mountain bike che utilizzavano per le scampagnate e... Maura era nell'angolo in fondo
a destra, quello vuoto, dove avevano intenzione di installare una doccia. Aveva un'espressione atterrita, di
forte panico, indotta da...
Seguì quello sguardo che amava, lo seguì fino a dove rivolgeva trepidante la sua attenzione. Lo sguardo di
Giacomo trapassò aria calda e stantia che odorava di olio e muffa, incontrò controluce il pulviscolo
infinitesimale che si librava in essa, considerò mille ipotesi senza tuttavia formularne alcuna. Infine vide
quello che attirava l'attenzione della donna.
Abbarbicato al soffitto, come se vi fosse incollato, precisamente nel centro della stanza (nascondeva il neon,
comunque spento data l'ora) c'era quello. Una specie di mostro alieno, che a Giacomo parve fatto
d'inchiostro. Inchiostro nero scaturito dalla penna del demonio.
'' Ferma, non ti muovere... '' le disse alzando la mano con il palmo aperto verso di lei. Lo aveva intuito,
certo, quell'essere la stava osservando, la stava studiando e, al suo minimo movimento, come un ragno che
attende paziente nel centro della tela, l'avrebbe attaccata e resa vittima del suo istinto predatore.
'' E' la vedova nera '' pensò Heavy Jack nel momento d’impasse che si era venuto a creare e da cui non sapeva
uscire.
'' Come si cancella l'inchiostro del demonio? '' pensò di nuovo e si accorse che nulla stava tentando per salvare la
sua amata e terrorizzata Maura. Nulla, perché nessuna idea gli veniva in mente. Lì, fermo sulla soglia che
era l'unica via d'uscita da quella situazione.
'' No, Maura, no! '' gridò disperatamente alla sua fidanzata che, preso coraggio, aveva lasciato l'angolo e
stava correndo verso di lui, precipitandosi verso l'uscita che, ahimè, non raggiunse mai.
Quel ragno maledetto le piombò addosso nell'attimo in cui la poveretta gli passava di sotto. Gli occhi
atterriti di Giacomo furono l'ultima cosa che vide, poi il buio s’impossessò di lei frantumandole i pensieri.
In chiesa toccò a Enrico, il vedovo col bastone da passeggio.
Erano tutti inginocchiati, o semplicemente in piedi e con la testa china, per il momento solenne
dell'Eucaristia. Don Alderico alzava l'ostia in evidente stato di estasi e pronunciava la formula sacra. Enrico
occupava da solo una delle ultime panche in fondo, vicino all'uscita. Nessuno sarebbe potuto accorgersi
che un'ombra gli arrivava alle spalle, muovendosi come un gatto nero ammantato di sventura, quasi felina
nella sua fluente andatura silenziosa, feroce come una pantera nera affamata di anime.
Il vecchio non si accorse di niente. E fu meglio così. Nell'attimo in cui quell'essere gli saltò addosso
ingoiandolo nella sua tenebra, egli pensava all'ultimo sorriso regalatogli dalla moglie, un mese prima, nel
letto d'ospedale in cui era spirata. Il mostro, paradossalmente, lo salvò dal resto di quella vita, che sarebbe
stata scialba e ricca di solitudine. Quando i fedeli, alcuni minuti dopo, lasciarono la chiesa, non fecero caso
al bastone di castagno con la punta di gomma, abbandonato sulla panca.
Giacomo vide scomparire la sua fidanzata, al suo posto nel garage ora c'era una chiazza d'inchiostro
maledettamente viscida, strana, aliena... bastarda. Un groppo enorme gli si formò in gola, mentre sentiva le
lacrime formarsi negli occhi, divenuti laghi in esondazione. Sentì il pericolo mordergli il collo, quando
parve che quel mostro disumano lo stesse guardando e studiando come prima aveva fatto con Maura.
Al dispiacere immenso per la sorte della sua ragazza, si unì il desiderio altrettanto importante di scappare,
perché quel ragno immondo avrebbe ucciso anche lui. Corse via da lì, con la coda di cavallo che sussultava
violentemente e le chiavi della Smart che gli tintinnavano in tasca '' in casa, presto... no, l'auto, forse è meglio se... ''
si guardò alle spalle, la vedova nera si stava preparando per un nuovo attacco.
Heavy Jack prese la sua decisione. Sfilò le chiavi di tasca, premette il pulsante di apertura, aprì lo sportello,
si tuffò sul sedile morbido e accese la rosea creatura di metallo respirando paura, essenza di pino e odore di
Maura.
Il ragno era uscito dal garage e veniva verso di lui; camminava, sì, ma non aveva zampe, né artigli, né testa.
Giacomo inserì la retromarcia, uscì dal cancello, fortunatamente aperto, vide il ragno raggiungere il luogo
dov'era parcheggiata la Smart, inserì la prima e alzò il dito medio contro la bestia.
'' Ficcatelo in culo! '' disse a brutto muso e partì con una sgommata. Salì la stradina, si soffermò per un
attimo soltanto allo stop e s’immise nella via principale con lo scatto di un pilota quando il semaforo di
partenza diventa verde.
Il chierichetto Samuele si stava togliendo l'abito di lino, che era bianco e con il bordo inferiore blu scuro,
usato durante la messa. Aveva un'espressione pensierosa.
'' Che c'è, figliolo? '' gli domandò don Alderico, un lieve sorriso gli apparve sul volto stanco.
'' Niente... cioè, mi domandavo... riguardo all'omelia... '' disse Samuele appoggiando il suo abito su una
sedia della sacrestia.
'' Ti è piaciuto il mio discorso? '' continuò il curato raddrizzandosi la schiena.
'' Beh, sì. Mi domandavo se tutti quelli che sono stati cattivi vanno a finire all'inferno... '' domandò il
ragazzino. Un ampio sorriso riempì la faccia rugosa del prete, che rispose posandogli una mano tremante
sulla spalla.
'' Ci sono diversi modi di essere cattivi, figliolo, ma esistono pur sempre il perdono e la confessione. ''
" Ah... ed io quando potrei venire da voi, a confessarmi? '' chiese il ragazzino un po' colpevole e un po'
timido.
'' Ah, ah. Hai combinato qualche marachella, eh? Va bene, su, ripassa di qui nel pomeriggio, diciamo alle tre.
Mi trovi nel confessionale. '' così dicendo lo liquidò con un gesto della mano, aveva altro da fare che stare a
sentire simili bazzecole.
Samuele uscì un poco sollevato, la sua bicicletta era appoggiata al muro scalcinato della sacrestia '' altro che
marachella, se sapesse... '' pensò salendo sulla bici '' chissà se confessarmi, basterà a redimermi. '' la sua bocca fece una
smorfia, mentre le mani afferravano le manopole '' non ho nemmeno il coraggio di confessarlo, io. ''
Fu quando cominciò a pedalare che qualcuno sbucò alla sua destra e gli si avventò contro.
Samuele sterzò per evitarlo e cadde sulle dure, antiche pietre del selciato, sbucciandosi un gomito e un
ginocchio. La bici gli intrappolava una gamba e l'oscuro personaggio che lo aveva disarcionato lo
sovrastava con una cattiveria disumana.
''Chi sei? " sibilò il ragazzino, tremando di paura come la foglia di una betulla nel gelido vento di
tramontana. Il nemico non rispose, ma si limitò ad avvolgerlo con il suo cupo, enorme mantello. Samuele
non provò alcun dolore, come nemmeno le altre vittime, del resto, ma credette fino in fondo che Satana in
persona, o un suo terribile messaggero, fosse venuto a prenderlo e, poiché giudicato cattivo, lo avrebbe
caricato a forza sul suo colossale destriero e condotto negli inferi a scontare la sua pena.
Heavy Jack piangeva. Aveva percorso mezzo chilometro sulla via principale, guardando ossessivamente lo
specchietto retrovisore, ma del ragno fatto d'inchiostro, o di quello che fosse, nemmeno l'ombra. Gli
sembrava di averlo seminato.
Rallentò un poco, vide la chiesa alla sua destra '' la messa è già finita... '' pensò " Maura ci andava spesso... se anche
stamani ci fosse... " e pianse. Lacrime di sfogo gli inondarono la pianura delle guance e bagnarono di gocce
salate la sua barba.
Giacomo oltrepassò il paese, dietro la curva seguente avrebbe incontrato l'azienda di Tommaso, che gli
forniva la legna per l'inverno, poi il cartello con la scritta Colleborghino Vistalago: FINE. Un'occhiata allo
specchietto retrovisore della Smart gli rivelò l'assenza di qualsiasi inseguitore. Fece la curva, vide Tommaso
impegnato a caricare un camion e rifletté '' che faccio? Mi fermo? E che gli racconto? Una cosa nera che pareva
inchiostro, anzi era un grande ragno immondo, ha ucciso Maura ed io sto fuggendo da qui, da lui, da me stesso? "
Fu allora che lo vide.
La via proseguiva con un rettilineo di circa trecento metri, in fondo al quale s’intravedeva il cartello con il
nome del paese barrato di rosso e, in mezzo, a cavallo della linea di mezzeria, c'era il ragno, la vedova nera.
C'era l'inchiostro scaturito dalla penna del demonio, c'era un'ombra bastarda e inverosimile, c'era un
enorme giocatore di football che attendeva il suo avversario, c'era... l'orrendo assassino di Maura.
Heavy Jack non ci pensò due volte: inserì la quarta e pigiò sull'acceleratore a tavoletta, scagliandosi addosso
al nemico con l'intento di vendicarsi.
" Ti ammazzo bastardo! " gridò. Gli occhi erano sbarrati e iniettati di sangue; i capelli, che aveva liberato
dal laccio, erano onde di un mare in tempesta; le mani stringevano il volante con indicibile forza, il corpo
tutto era pervaso da una rabbia devastante; nelle orecchie risuonavano potenti gli accordi della canzone che
gli frullava in testa da quando si era svegliato.
A cinquanta metri dal bersaglio aveva davanti il viso bello di Maura, deformato dalla paura.
A venti metri dal nemico, ancora là, in posizione di attesa, sentì la debole voce dell'amata che gli chiedeva
aiuto da un posto lontano.
E poi avvenne l'impatto.
Anzi l'impatto non ci fu, perché il killer non aveva il corpo solido di un ragno, quantomeno quello liquido
dell'inchiostro, bensì quello etereo di un'ombra, che fu attraversato dall'auto in corsa senza il minimo
danno per entrambi. La Smart rosa percorse ancora trenta metri, dopodiché andò a sbattere contro il
guardrail della curva successiva, si ammaccò notevolmente la fiancata destra, perse lo specchietto e il fanale
anteriore del solito lato, strusciò per un breve tratto producendo scintille e, poco dopo, rallentando sempre
di più, si fermò in una piazzola di sosta. Il motore si spense con qualche borbottìo di troppo.
A vederla, con il lato buono dalla parte della carreggiata, pareva un'auto in sosta, più che un'auto incidentata. Nessuno aveva seguito la scena, ma se qualcuno lo avesse fatto, e fosse andato a vedere come
stava il conducente, non lo avrebbe trovato.
L'abitacolo era vuoto. Heavy Jack era andato, inconsapevolmente, incontro al suo assassino.
Pochi metri più su, il killer lasciò la strada e s’inoltrò nel bosco.

Ore 12.00
Stella aveva passato più di un'ora in assoluto stato di shock, ma si stava rianimando.
Era seduta nel box doccia con la schiena appoggiata alle piastrelle e accarezzava il suo cane, che continuava
a scodinzolare affettuosamente. Era ancora terrorizzata. Il primo pensiero che le balenò nella mente fu che
si era trattato di un sogno. Un brutto sogno.
Subito dopo si accese in lei, vivo e accecante, il ricordo di ciò che era accaduto, e fu come accendere una
torcia in una grotta buia. Stella non riusciva proprio a credere che un killer esistesse veramente e che quel
killer fosse... sparito, dissolto; in altre parole, si fosse disintegrato.
'' Paperino, mi hai salvato la vita, lo sai? '' disse al suo fedele canino, stringendolo forte a sé.
'' Dico, ma chi era... che cosa era? '' Stella guardava nel vuoto, nel punto, dove era scomparso il mostro,
frantumandosi in mille coriandoli neri.
'' Credo... cioè... forse l'acqua è, come dire... il suo punto debole, no? '' rifletté osservando prima il
microfono della doccia caduto sul pavimento, e di seguito cercando conferma negli occhietti scuri e
simpatici dell'amico.
Paperino annuì abbaiando due volte.
Stella si alzò a fatica, indossò un paio di mutandine e un reggiseno pulito.
'' Ma per caso, cioè, si è riformato? '' il singolo abbaio del cane era da considerarsi una risposta negativa.
'' Giusto, anche secondo me è morto stecchito! '' infilò pantaloncini e maglietta nuova.
'' Dico... ma chi cazzo... uh, scusa. Ma che cosa era, un illusionista tipo Copperfield? O un alieno? '' il cane
fece un piccolo mugolìo e starnutì. Stella andò a perlustrare le stanze della sua piccola casa, guardando
dietro ad ogni angolo, per timore che ci fosse ancora qualcuno o qualcosa, quindi prese lo smartphone che
aveva appoggiato sul tavolo di cucina quando era rientrata '' ora chiamo la polizia '' pensò. Compose il
numero e si fermò prima di far partire la chiamata.
'' Mi crederanno? Dico, se mi mettono una camicia di forza e mi spediscono direttamente al manicomio? ''
Paperino si stava grattando il nasino umido.
'' Meglio che avverta la mamma... '' disse Stella ripensandoci e toccandosi istintivamente il naso con l'indice.
Richiamò dalla rubrica del telefono il numero di mamma Giulia (i suoi abitavano a Firenze) e inviò la
chiamata.
'' Brutta ciribulla! Come mai non prende? '' disse guardando lo schermo. Paperino la osservava con la
testolina piegata di lato.
'' Proviamo con zio Tommaso... '' Stella digitò il numero dalla rubrica, e pure stavolta niente comunicazione.
'' Non so perché questo coso non funziona, brutta ciribulla, ma so che dobbiamo avvertire lo zio. Credo
che l'operaio scomparso abbia a che fare con il mostro. Sì, proprio quella cosa che abbiamo fermato. Me lo
sento! '' disse abbastanza convinta. Il cane abbaiò due volte all'indirizzo del volto teso della padroncina, poi
si diresse in camera.
'' Paperino, il tuo cibo si trova in cucina, non di là. '' lo ammonì lei mettendosi a cercare le scarpe. Dopo sei
secondi netti, il cane tornò con le Nike che gli penzolavano in bocca tenute per i lacci.
'' Grazie, amore mio, non so come farei senza di te. '' gli disse prendendo le scarpe con delicatezza.
'' Andiamo, ma stavolta non a piedi. ''
Due minuti dopo, Stella pedalava sulla sua bicicletta da donna, con Paperino che assaporava l'aria calda di
mezzogiorno con il muso proteso al vento, comodamente seduto nel cesto rosso davanti al manubrio.
'' E quello è stato l'ultimo Natale che passammo insieme... " disse Jan fermandosi a contemplare un falco
che volava sopra di loro.
'' Mi spiace per il tuo papà, eh eh... '' Vincenzo giocherellava col bastone che si era fabbricato quel mattino,
facendolo roteare notevolmente.
'' Non preoccuparti Vince. Sai, quel giorno eravamo dai nonni e lui mi regalò una cosa strana, bellissima. ''
disse Jan accarezzando una foglia di faggio.
'' Che cos'era, Jan? ''
'' Un plastico che aveva fabbricato da sé. L'ho ancora sai? ''
'' Davvero? Eh? ''
'' Sì, lo tengo in casa, come soprammobile. È fatto interamente di legno, intagliato ad arte. '' disse
rompendo un ramoscello secco e gettandolo in terra.
'' E che cosa raffigura, eh? ''
'' Il nostro paesello, Vince, proprio il paese in cui lavorava... e che amava tanto. '' " e dove ha trovato la morte...
" pensò. Jan, con le mani in tasca, si era messo a dar calci ai rametti sparsi nel sentiero insieme al fogliame.
'' Mitico! Tuo papà, eh eh... poi me lo fai vedere? '' disse Vincenzo con un sorriso di ostentata contentezza.
Jan rimase in silenzio per un po', assaporando il gusto amaro della nostalgia.
'' Certo, perché no? " rispose infine.
'' Bellooooo! Eh... '' Vincenzo era estasiato.
'' C'è proprio tutto, sai? '' continuò Jan '' la strada principale, i viottoli, il bar, la lavanderia, la chiesa e il
campanile... le case... tutte le case. C'è pure la tua dimora! '' concluse sorridente e orgoglioso.
'' Figoooo! ''
'' E anche la casa stregataaaaa! '' disse Jan alzando platealmente la voce e protendendo le mani in avanti,
come fossero artigli, per fargli paura. Vincenzo si ritrasse d'istinto, ma subito dopo si mise a ridere insieme
all'amico burlone.
'' Che fame mi è venuta, faccio una sosta per pranzare. '' disse Jan, arrivando in un punto dove la
vegetazione era più rada; si sedette sull'erba a gambe incrociate e aprì lo zaino.
'' Vuoi favorire Vince? Ho due panini al prosciutto, un paio di bibite e una bottiglia d'acqua fresca della
fontana che possiedo vicino a casa. '' disse iniziando a tirare fuori il cibo.
'' Beh, sì... eh eh... mi piacerebbe, ma... '' fu allora che Vincenzo notò un movimento insolito dietro l'amico,
dove la vegetazione s’infittiva di nuovo. Il suo sguardo si fissò in un punto imprecisato del sottobosco.
'' Mi è sembrato di... '' disse con voce tremante.
'' Che cosa, Vince? ''
'' Di vedere un'ombra, laggiù, eh eh... vicino a quell'albero. '' Vincenzo indicò il punto con il dito della
mano, così forte e grossa, quanto insicura.
'' Che cosa hai visto? '' Jan pareva turbato.
'' Una cosa scura che camminava, o scivolava, eh eh... non sono stato molto attento. Scusa. '' ora guardava
l'amico sentendosi improvvisamente in colpa per non saper definire a modo quello che aveva visto.
'' Andiamo a dare un'occhiata. '' fece Jan molto sicuro di sé, alzandosi e prendendo lo zaino. Vincenzo lo
seguì sfiorandogli la schiena con la mano, per paura di rimanere indietro e da solo, finché arrivarono al
punto dov'era stata segnalata la presenza.
'' Guarda qui... '' fece Jan '' foglie smosse. ''
'' Ah sì, eh eh, vedo. '' ma in realtà non vedeva nulla, lo disse solo per assecondarlo.
S’inoltrarono poi in uno stretto sentiero non più battuto da qualche tempo, fra arbusti di pungitopo,
agrifoglio e rosa canina.
" Vedi niente, Jan? " mormorò Vincenzo standogli vicino come il ferro alla calamita.
" Niente, Vince. Nessuno. "
" Ho un po' di paura, eh eh..." disse ancora, sempre incollato alla sua schiena. Gli occhi del ragazzone si
dilatarono a dismisura quando videro che cosa li aveva turbati in precedenza. Jan era avanzato di qualche
metro, aveva scostato un cespuglio di biancospino e lo aveva colto in flagrante.
Un timido, gracile capriolo, stava brucando qualcosa in uno spiazzo grande come una stanza ; pareva un
aggraziato, solitario avventore, che s’intratteneva in un salotto d'erba.
" Ecco risolto il caso, ti è passata la paura? " sussurrò Jan sorridendo.
" Eh eh, guarda come mangia, eh? " rispose l'altro sollevato ed eccitato al contempo.
" Sss, parla piano che... " mentre Jan lo avvertiva di non fare troppo rumore, il capriolo si accorse della loro
presenza, alzò la testa e scappò via in un baleno, lasciando i due a guardarsi l'un l'altro.
" Mi dispiace, Jan, non credevo di spaventarlo, eh... " disse Vincenzo imbronciato.
" Era una femmina, forse cercava il cibo per i cuccioli... "
" Ah, e come fai a sapere che era una donna? Cioè una femmina, eh eh..."
" Non ha le corna, semplice no? " rispose Jan alzandosi per tornare da dove erano venuti.
" Ora tocca a noi mangiare, giusto? " riprese strizzando l'occhio all'amico.
" Beh... sì. Jan, senti. Io, eh eh... dovrei tornare a casa, la mamma mi vuole a pranzo, sai... eh? " disse il
ragazzone osservandosi i piedi. Ora i due amici si trovavano di nuovo nel luogo scelto per il pranzo, i
fringuelli cantavano le loro dolci melodie e il sole li applaudiva con le sue calde mani di luce.
" Vai pure, Vince, non mi offendo. " disse Jan addentando un panino.
" Vado, eh eh, anche se sarei voluto restare, eh… mi sono divertito tanto tantissimo! Eh... "
" Anch'io, Vince, ci vediamo allora. " bevve un sorso d'acqua.
" Ciao Jan, eh eh " Vincenzo prese il sentiero in direzione del paese.
" Ah, Vince... " lo richiamò Jan un po' pensieroso. Vincenzo si voltò e rimase in silenzio ad aspettare le
parole dell'amico.
" Niente. Vai pure... " il ragazzone si allontanò con la sua andatura pesante, la maglietta nera e i jeans
anch'essi neri; sembrava un orso a spasso per il bosco. Un orso che indossava scarpe gialle fosforescenti.
Jan osservò quel tipo buffo, con cui aveva chiacchierato di cose inutili e con cui, inaspettatamente, si era
anche confidato. Quello che non gli aveva detto, era che quel giorno ricorreva l'anniversario della morte di
suo padre, erano passati vent'anni.
Uno scoiattolo, ai piedi di un castagno, mosse freneticamente le sue zampette, dopodiché corse su per quel
vecchio tronco bucherellato e rugoso, con la coda ritta e la certezza di ritrovare il suo nido. Jan lo osservò
in silenzio, posò il panino sull'erba, si coprì il viso con le mani e pianse.
" O dove va Stella, pedala come un ciclista in fuga! " pensò Eliseo, il marito di Delfina, ritto sulla porta d'ingresso
della lavanderia. Era appena arrivato in negozio e non vi aveva trovato la moglie.
" Delfinaaaa! Ci sei? " provò di nuovo a chiamare la consorte, senza ottenere risposta. Fu allora che
l'occhio gli cadde sull'oblò della grande lavatrice, comprata a rate e finita di pagare l'anno scorso.
" Ma che cosa... " si avvicinò all'oblò e vide un paio di occhi sgranati che fissavano il vuoto.
" Delfina? Per l'amor del cielo, che ci fai lì dentro? " Eliseo aprì l'oblò.
" Mai e poi mai mi sarei aspettato... Delfina, Delfina, parlami... sei viva? " gridò cercando di tirarla fuori per
le mani, che teneva davanti bene in vista. Dato che l'oblò era abbastanza grande e lei piuttosto piccola,
dopo alcuni tentativi il marito riuscì a tirare fuori il busto della donnina; rimanevano dentro soltanto le
gambe.
" No, che fai... ti prego, non farlo. Lasciami qui dentro. Qui sono... sono... " flebile era la voce di Delfina,
pareva non provenire dalla bocca, era come un'eco lontana.
" Oh, menomale che sei viva! Perché non vuoi che ti tolga da siffatto... nascondiglio? "
" Qui sono... al sicuro! " disse lei impaurita. Eliseo non voleva credere alle sue parole.
" Figuriamoci... " disse tirandola a sé con forza.
" Nooooo! " la lavandaia era terrorizzata. Dopo cinque minuti, il marito l'aveva tirata fuori, fatto sedere,
rifocillata con un bicchiere d'acqua e calmata con trenta gocce di Valium, che lui si portava sempre
appresso.
" Ora su, dimmi, cosa è successo? " Delfina aprì la bocca per spiegarglielo, ma subito la spalancò e, insieme
agli occhi, il suo volto mutò in un'espressione che era un misto di spavento, terrore e odio (per il marito).
Mentre formulò il pensiero " te l'avevo detto di non salvarmi " il killer avvampò come una fiammata nera alle
spalle di Eliseo e lo bruciò in un attimo, facendolo poi scomparire come cenere nel vento.
Delfina non ebbe la forza né il tempo di rientrare nel nido salvifico. Cedette sgomenta alla micidiale, fredda
e possente volontà dell'assassino.

Il paese fantasma Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora