Dicembre - GENNAIO 2016

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🕛Giovedì 31, 12:19

Casa era così affollata.
Come ogni natale non mancava nessuno: Johana, Phil, la nonna Millie e la nonna Agatha, la prozia Corvette e il prozio Fitzwilliam, lo zio Lester, la zia Anna, lo zio Foster e mio cugino Pete, il nonno Stephen e il prozio Benjamin, lo zio Josh e lo zio Arold insieme alle loro mogli e mie zie Patricia e Caroline ed i cugini Jeremia, Ben, Parker e Cintia. Le loro mogli o mariti e i rispettivi figli di cui ogni anno dimenticavo i nomi. Ce n'erano altri, ma la mia famiglia era così ricca di gente e di generazioni che molti di loro sarebbero morti senza che io li ricordassi.
Ogni anno, tra chi veniva per il pranzo o la cena e chi restava a dormire, nel periodo natalizio avevamo la casa piena, un pentolone carico di adulti, ragazzi, anziani e bambini.
In altre parole: un putiferio assordante.
Casa dei miei occupava circa duecentonovanta metri quadrati di terreno, tra larghezza e altezza, considerato l'ampio giardino e il piano superiore, ed era davvero uno spazio notevole; tuttavia natale era quel periodo dell'anno in cui anche la Casa Bianca di colpo si rimpiccioliva.
In generale mi piaceva stare con tutti e conoscere ognuno di nuovo da capo, soprattutto delle nuove generazioni che non facevano che crescere da un anno con l'altro, ma quest'anno non ne avevo voglia. Sopportavo di stare con tutti al massimo due ore o a tavola, poi dovevo inventarmi un motivo per uscire o allontanarmi. Ero lì da circa una settimana e la procedura era sempre stata questa.
Perciò per l'ennesima volta mi rifugiai in camera mia e mi sedetti sul letto stringendomi le gambe al petto e poggiando il mento sulle ginocchia.
Avevo chiesto scusa a mia madre, avevo chiesto scusa a tutti e, preoccupati, mi avevano accolta a casa quella sera stessa. Mamma fu così gentile da non dire cose come se mi avessi ascoltato prima... o io te l'avevo detto...  quando le raccontai dettagliatamente e in privato tutto quello che era successo. Le avevo raccontato infine anche di Steven, e non avevo tralasciato nulla. Mi ero sentita meglio: avevo pianto, mi ero sfogata e avevo quasi superato la tristezza della faccenda.
Ciò, però, non voleva dire che avessi anche superato la depressione.
Non che fossi in quella fase estrema della depressione, non me ne stavo per ore chiusa tra i miei pensieri a piangere e a disperarmi. Bene o male sapevo accettare una brutta situazione quando mi capitava. Quello che non riuscivo ad accettare era l'idea di tornare a casa, rivedere Steven ed affrontare la faccenda trasloco. Perché era ovvio che a quel punto dovessi andarmene.
Mi tornarono in mente le parole di mio padre, il giorno in cui me ne stavo andando e mia madre piangeva, disse che sarei tornata e gli avrei chiesto di tirarmi fuori da quella situazione.
«Perché tra meno di una settimana ce la ritroveremo in mezzo ai piedi pentita della scelta fatta e ci implorerà di risolverle il problema e riprenderla a casa.»
Ero in ritardo di undici mesi, ma alla fine aveva avuto ragione lui. Anche se per una situazione un po' diversa.
Quella casa doveva essere maledetta, non avrei mai pensato che quando mamma mi aveva messo d'avanti l'ipotesi che dopo tanti anni in quella casa poteva esserci successo di tutto potesse intendere anche che qualcuno l'avesse maledetta. Perché, altrimenti, non mi spiegavo com'era che da quando avevo messo piede lì dentro era andato tutto male.
Non potevo neanche pensare che l'unica cosa buona che avesse fatto fosse stata di farmi conoscere Steven, perché stavo per chiudere i rapporti anche con lui e non era certo stata una bella conoscenza, dall'inizio, alla fine: avevamo litigato, fatto la pace, litigato di nuovo, fatto l'amore e infine separati.
Davvero una bella storia...
Avevo pensato più volte di chiamarlo e farlo venire da me nell'ultima settimana, perché non riuscivo a togliermi dalla testa l'immagine di lui da solo a casa, in cucina a mangiare, sul divano a guardare la tv, nel letto al buio in un vano procinto di prendere sonno avvolto dall'assordante rumore del silenzio.
Mentre il mondo era con la propria famiglia.
Mentre io ero con la mia numerosissima famiglia e neanche la consideravo.
Quell'immagine mi divorava e in un momento di debolezza lo avevo confessato a mia madre.
«Certo, è triste.» aveva detto lei sedendosi sul letto difronte a me «Ma tu non lo vuoi.»
«Non è che non lo voglio io... è che...» non trovavo le parole giuste.
«Che te ne sei innamorata, Miky.» aveva concluso lei al posto mio e mi provocò una strana reazione sentirlo dire così schiettamente e ad alta voce da lei. Da lei prima che da me.
Avevo abbassato lo sguardo sulle mie mani e avevo mormorato: «Non sono innamorata...»
Ma lei aveva sorriso e mi aveva carezzato una spalla.
«Allora perché non lo chiami e lo fai venire qui?»
«Perché...» la verità era che non avrei sopportato di restare nella stessa stanza con lui dopo aver ammesso a me stessa di desiderarlo molto più che come amico nella mia vita. Ed era strano.
Era diverso.
Con una normale cotta avrei messo a tacere la cosa nel giro di poco tempo se avessi voluto, perché mi era già successo e lo avevo già fatto; un comune innamoramento sapevo di poterlo sminuire, con un po' di tempo, ma lo avevo già fatto e sapevo che era possibile. Con Steven la faccenda era assurda, grave, impossibile, estranea. Ci avevo provato più volte, in tanti modi, da dopo la casetta, da dopo le due settimane di guerriglia, da dopo il bacio... Ma mai, niente aveva neanche accennato a funzionare. E come combattere allora qualcosa di così forte e potente? Di così sconosciuto? Con il tempo.
E la distanza.
Tempo e distanza erano le ultime due cose che mi restavano.
Allora era necessario che me ne andassi di lì e cambiassi città? Dovevo arrivare a questo?
Mi sentivo così incredibilmente stupida per non riuscire a controllare quella situazione, per non riuscire a mettere a bada i miei stupidi sentimenti.
«Perché sarebbe sconveniente. Io me ne andrò di lì e non resteremo neanche in contatto, perciò non ha senso inserirlo in una famiglia complessa come la nostra per poi doverlo lasciare fuori l'anno prossimo.» avevo risposto quindi alla fine non senza un certo impeto nervoso. La verità mi innervosiva.
«Perché tu hai deciso di lasciarlo fuori.» aveva allora osservato lei.
«Non l'ho deciso io, è così che deve essere. Non potrebbe diversamente. Lui non è–» come potevo dire? Non era uno che si sarebbe lasciato incatenare da una sola ragazza. Proprio come Nick.
«Sai cosa?» a quel pensiero mi ero alzata di colpo e avevo stretto i pugni arrabbiata e ferita come non mai  «Non credo sia poi così solo, sono sicura che non avrà avuto difficoltà a trovarsi una ragazza con cui passare le notti in questa settimana.» e così dicendo ero uscita dalla camera provando davvero per la prima volta il sapore della gelosia.
E sentendomi per l'ennesima volta il più scemo essere vivente sulla faccia della terra.
Quindi, ora mi chiedevo, perché stare così male se la mia scelta l'avevo presa?
Avrei dovuto voltare pagina: avrei affrontato Steven per l'ultima volta poi me ne sarei andata a vivere da un'altra parte, in un'altra casa, assicurandomi d'esser la sola ad occuparla prima di firmare qualunque contratto, e avrei iniziato a conoscere altra gente finché con il tempo e con la distanza non avessi tirato via fino all'ultimo residuo di amore nei riguardi di Steven.
Apparentemente, era un buon piano.
   
   
   
🕞15:31

Un coinquilino in affittoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora