Le sorelle di Psiche.

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Così quando il suo sposo, più presto del solito, le si distese al fianco e stringendola fra le braccia sentì che piangeva:<Sono queste> le disse <le tue promesse, Psiche? Che cosa può aspettarsi da te, che cosa può sperare un marito? Non fai altro che piangere giorno e notte e non smetti di tormentarti neanche quando sei fra le mie braccia. Fa pure quello che vuoi, va pure dietro al tuo cuore e tienti il danno, ma quando comincerai a pentirtene, e sarà tardi, ricordati che io ti avevo seriamente avvertito.> Ma ella con mille preghiere, minacciando perfino che si sarebbe data la morte, strappò al suo sposo il permesso di vedere le sorelle, do consolare il loro dolore, di trattenersi un poco a parlare con loro. Ed egli cedette all'insistenza della giovane sposa e le concesse perfino che donasse alle sorelle tutto l'oro e i gioielli che credeva ma, nello stesso tempo, l'avvertì severamente e con parole ché le fecero paura, di non indagare, magari seguendo i cattivi suggerimenti delle sorelle, sull'aspetto di lui, di non cedere a un simile sacrilega curiosità, perché allora, da tanta beatitudine sarebbe precipitata nella rovina più nera e non avrebbe più goduto dei suoi amplessi. Ella ringraziò lo sposo e tutta contenta lo rassicurò che avrebbe preferito cento volte morire piuttosto che non fare più l'amore con lui, che lo amava ardentemente, chiunque fosse, che le era caro come la vita e che lo preferiva allo stesso Cupido :<Ma ti prego> gli diceva tra i baci <concedimi ancora questo: comanda a tuo servo Zefiro di portar qui le mie sorelle al modo stesso che lo fui io> e gli sussurrò mille dolci paroline e si avvinghiò al suo corpo quasi a costringerlo, continuandogli a ripetere fra le carezze:< Gioia mia, sposo mio diletto, dolce anima della tua Psiche>. Suo malgrado lo sposo cedette alla forza e alla seduzione di quei sussurri d'amore e promise che avrebbe fatto quello che lei voleva; poi, appressandosi l'alba, si sciolse dagli amplessi della sposa e svanì.

Frattanto le sorelle, saputo il posto in cima alla montagna dov'era stata abbandonata Psiche lo raggiunsero senza indugio e qui cominciarono a piangere e a battersi il petto, tanto che rocce e dirupi echeggiavano presto dei loro gemiti. Poi si misero a chiamare per nome la povera sorella finché Psiche, a quei dolorosi lamenti che si spandevano tutt'intorno giù giù fino a valle, trepidante e fuori di sé si precipitò dal palazzo esclamando:< Perché vi disperate? Voi mi piangete ed io sono qui. Smettetela con i lamenti. Asciugate le vostre guance troppo a lungo bagnate di lacrime perché ormai potete abbracciare quella che piangevate morta. Poi chiamò Zefiro, gli riferì il volere dello sposo e quello, subito, ubbidiente al comando, lieve lieve con i suoi dolci soffi le trasportò giù sane e salve. Baci e abbracci a non finire si scambiarono le tre sorelle e le lacrime a stento poco prima represse tornarono a spuntare ma questa volta furono lacrime di gioia. <Suvvia, entrate e rallegratevi, questa è la mia casa, bando alle malinconie, ora che siete con la vostra Psiche.>
E così dicendo mostrò alle sorelle tutti i tesori di quel palazzo dorato e fece sentire anche a loro le innumerevoli voci che la servivano. Poi le ristorò con un magnifico bagno e con un pranzo che fu tutto una delizia, degno degli dei, tato che dopo essersi rimpinzate di ogni ben di dio le due sorelle cominciarono a covare in cuor loro un senso di invidia. A un certo punto una delle due cominciò a far la curiosa e a chiedere con insistenza chi fosse il padrone di tutte quelle meraviglie, chi era il suo marito e che aspetto avesse. Ma Psiche a nessun costo avrebbe tradito il giuramento fatto allo sposo e ,infatti, non svelò i suoi segreti. Là per là inventò che era un bel giovane con il volto appena ombreggiato dalla prima barba, sempre via a caccia per boschi e per monti, e, anzi, per evitare che, continuando nel discorso ella potesse tradirsi e dire cose che non doveva, chiamo Zefiro e dopo averle caricate di gioielli, di gemme, di pietre preziose, le affidò a lui, perché gliele portasse via. Il ce fu subito eseguito.

Ma quello che non si dissero, rientrando a casa, le due rispettabili sorelle, divorate com'erano dall'invidia e dalla bile!  Una alla fine, garrì:< Fortuna orba, crudele e malvagia. Bel gusto il tuo a farci nascere dagli stessi genitori e poi darci una sorte così diversa. Noi che siamo le più grandi, facciamo le serve a dei mariti stranieri e siamo costrette a vivere come delle esiliate, lontano dalla nostra casa, dalla nostra patria, dai nostri genitori; quella lì invece, la più giovane l'ultimo parto di un ventre ormai esausto, ha ricchezze a non finire e un dio per marito e di tutta questa fortuna non sa nemmeno farne buon uso. Ma hai visto, sorella, quanti e quali tesori in quella casa e che splendide vesti e che luccichio di gioielli? Sembra di camminare addirittura sull'oro, se poi ha anche un bel marito, come lei dice, è proprio la donna più fortunata del mondo. E non è detto poi che vivendo insieme e crescendo l'affetto, il marito, che è un dio, non finisca per far diventare dea anche lei. Sta a vedere, perdio, che sarà proprio così: quel suo modo di fare, quel suo comportamento, quella già si vede sul piedistallo, ha per schiave delle voci, dà ordini ai venti, mi sa che nella donna c'è già la dea. Guarda me, invece, disgraziata che sono: m'è capitato un marito più vecchio di mio padre, per giunta più calvo di una zucca, più timido d'un ragazzino e che tiene tutta la casa sotto chiave e catena.>
<Ed io> fece di rimando l'altra <che mi devo sopportare un marito tutto rattrappito e sciancato dai reumatismi e che in fatto d'amore, quindi, mi fa fare lunghe astinenze. Devo sempre fargli le  frizioni alle dita, contorte e indurite come pietre, irritarmi queste mani così delicate tra medicine puzzolenti, luride bende e schifosi cataplasmi; altro che la moglie premurosa, l'infermiera mi son ridotta a fare. Tu, sorella, lasciatelo dire francamente, mi sembra che sopporti tutto questo con troppa pazienza, se non addirittura con la rassegnazione di una serva; io invece non so rassegnarmi all'idea che una fortuna di quel genere sia dovuta capitare a una che non ne è degna. Prova a ricordarti con quanta superbia e arroganza ci ha trattate e come si vantava davanti a noi e come si compiaceva dentro di sé. In fondo in fondo, poi, che cosa ci ha dato? Poche scarabattole, se si pensa a tutti i tesori che possiede, e a malincuore per giunta; poi su due piedi si è liberata della nostra presenza e a soffi e a fischi che ha fatto portar via. Ma quant'è vero che sono una donna e che sono viva, io quella la tirerò giù da tutta la sua fortuna. Perciò se anche tu, come dovresti, ti senti bruciare da quest'affronto, vediamo in due di tirar fuori qualche progettino efficace. Per prima cosa silenzio con tutti, genitori compresi, per quanto riguarda i doni che ci siamo portate via; anzi dobbiamo dire di non aver saputo nulla di lei se sia ancora viva o meno: già troppo di quello che abbiamo visto noi e che non avremmo dovuto vedere, che non è proprio il caso di andare a rivelare ai quattro venti o anche soltanto ai nostri genitori le sue fortune. Per fare, infatti, meno felice qualcuno è sufficiente che nessuno conosca la sua fortuna. Ora però torniamo dai nostri mariti, alle nostre case, povere quanto vuoi ma ospitali. Ci penseremo su con tutta calma e ponderazione e ritorneremo più risolute a punire tanta superbia.>

Questa malvagia risoluzione parve buona alle perfide sorelle che, nascosi tutti quei doni così preziosi, cominciarono a strapparsi le chiome, a graffiarsi il viso e a versare false lacrime. Poi, gonfie di rabbia, dopo aver rinnovato il dolore nei loro genitori sbigottiti, di furia, fecero ritorno alle loro case per macchinare un inganno scellerato, anzi un vero e proprio delitto nei riguardi della sorella innocente

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