2. Ricordo sfumato

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La macchina decapottabile nero opaco di Ewan sfreccia nella notte per una strada deserta illuminata sporadicamente da lampioni a bordo strada che sembrano spuntare come sterpaglia.
Su entrambi i lati ci sono solo campi deserti.
La luce del sole viene soffocata dal blu scomparendo all'orizzonte e lascia di sé solo un ricordo sfumato di arancione e rosa.
Lo sguardo di Ewan è fisso sulla strada che viene illuminata dai fari che lo guidano nel giorno che si fa ormai scuro: non pensa a nulla, è solamente spaventato.
È conscio di solamente una singola cosa in quel momento: non manca molto a che arrivi alla sua meta.
I capelli gli vengono sparati all'indietro fin sulla nuca dal vento che lo investe scavalcando il parabrezza.
Si libera della cravatta - la quale ormai ricorda un cappio per com'è appesa al suo collo - infilando due dita nel nodo e tirandolo da una parte, poi la getta sul sedile di dietro.
Si gratta la barba e si passa una mano sul viso: manca sempre meno.
L'ansia che divora i suoi pensieri logici si condensa in una nebbia che lo avvolge completamente.
Le stelle cominciano a brillare nel cielo che ormai è più nero che blu.
Ewan gira a sinistra in una strada perpendicolare a quella che stava percorrendo, una stradina in mezzo ai campi senza lampioni o asfalto.
Quella stradina ai cui lati scorrono alberi come scariche di mitragliatrice mentre corre a bordo della vettura lo conduce ad un vecchio albergo in rovina.
Nel frattempo che si fa vicino all'ostello spegne i fari dell'auto sforzandosi di vedere dove stia andando.
La stessa struttura di quell'edificio fatiscente sembra decadere piegandosi sulla base in un inchino inquietante.
Alcune travi di legno si erano staccate dalle pareti esterne ed erano ricadute sul portico.
Alcune finestre, nota Ewan, sono chiuse con assi che trasudano umidità che le ha fatte marcire da tempo.
Ewan smonta dall'auto con agilità, ed aggira lo stabile portandosi sul retro.
Lì nota un furgoncino bianco sporco di fango che immobile fissa il palazzo come un predatore la sua preda, in attesa, una paziente attesa famelica.
A quel punto gli viene da chiedersi se non sia troppo tardi mentre l'angoscia gli stringe il collo come in preda ad uni shock anafilattico.
E gli verrà se non si decide a darsi una calmata.
Guarda in alto, verso quelle schifose travi rigonfie e le finestre rotte, riparate alla bell'e meglio.
Da una finestra rattoppata con troppe assi riesce ad individuare un filo di luce artificiale che si scalza dal groviglio legnoso.
Si sbottona un paio di bottoni della camicia rossa e si fa avanti.
Il portone d'entrata è sfondato e ricade all'interno piegato come una fisarmonica abbandonata distrattamente da qualche parte.
Ewan lo scavalca e procede nel buio dell'atrio.
Quando entra l'oscurità sembra graffiarlo, respingerlo all'esterno e il messaggio è chiaro: lui non dovrebbe essere lì.
Nessuno dovrebbe trovarsi in quel posto che trasuda malattie della mente.
La luce della luna non riesce a filtrare in questo posto maledetto, riflette Ewan, e in corrispondenza di questa realizzazione un brivido gli corre lungo la schiena facendogli tremare le membra.
Nell'oscurità distingue a malapena gli oggetti che lo circondano, e Dio solo sa cosa potrebbe esserci nascosto in mezzo ad essi, ma nonostante ciò Ewan riconosce il posto: è lo stesso dei maledetti video che è stato costretto a guardare, quei video struggenti e partoriti nonostante avrebbero dovuto essere un aborto.
Vede teli di cellophane sopra quelle che sembrano poltrone o sedie, un orologio a pendolo che ha smesso di battere rintocchi da chissà quanti anni come un fabbro stanco.
Un grido sembra lacerare il vuoto nelle orecchie dell'uomo che arranca nel buio; istintivamente solleva la testa in direzione del suono, e questa volta, oscurità o meno, Ewan si getta a capofitto su per le scale.
Inciampa un paio di volte, ma le urla riprendono più forti e disperate: grida di una bambina terrorizzata.
Ogni volta che cade Ewan si rialza e alla fine, arrivato con fatica e ginocchia sbucciate al terzo piano, vede un fascio di luce artificiale provenire da sotto una porta.
Prova a ruotare la maniglia silenziosamente ma la porta non si muove, allora Ewan capisce che perderà l'effetto sorpresa.
Gli tocca prendere una rincorsa dal corrimano delle scale, ma quando Ewan si schianta sulla porta quella viene giù come fosse fatta di carta pesta.
Lui cade sopra la porta, non si aspettava d'altronde che fosse così cedevole, e accanto a lui scorge due figure sotto quella luce che sembra accecante dopo l'oscurità: un uomo davanti a una sedia alla quale è legata una bambina.
È lei.
È il motivo per il quale si trova lì, la giustificazione di tante ore di sonno perse e di tante paure, alcune irrazionali, altre meno.
Veronica Marsh, 10 anni, scomparsa nel settembre del 1995, rapita da un maniaco, ora finalmente ritrovata nell'ottobre dello stesso anno.
Si rialza appena in tempo per incrociare lo sguardo della bambina: poi uno strano bagliore saetta sotto il suo mento e la camicetta stropicciata che indossa si tinge di sangue.
Uno schizzo parte via veloce dalla carotide e inzuppa la faccia del tagliagole, il quale si ritrae un poco, quasi sconvolto dal calore che emana.
Il sangue scorre ed Ewan ha appena realizzato che il bastardo le ha tagliato la gola.
È tardi.
Veronica è morta.
Il sangue le si raccoglie sul ventre, poi sulla sedia e arriva persino alle ginocchia, nonostante la maggior parte del liquido contribuisca ad allargare il lago che si sta formando a terra.
Ewan rimane paralizzato di fronte a quello spettacolo di mirabile violenza ed orrore.
Subito dopo l'uomo, il pedofilo che Ewan inseguiva da più di un mese ormai, si gira verso di lui e tiene ancora stretto nella mano destra il coltello sporco di un sangue innocente.
Ewan si fa avanti posseduto da una rabbia cieca e che non riesce a controllare, ma l'uomo, con un gesto talmente semplice da sembrare banale, spinge in avanti il coltello ferendo Ewan al ventre.
La lama è fredda come l'inverno più lungo quando penetra tra le fibre muscolari facendosi spazio, eppure brucia come un rogo d'estate.
La camicia rossa di Ewan si scurisce mentre l'uomo di nome Kevin sfila la lama e lo spinge con un gesto delicato della mano contro la parete, facendolo sbattere addosso al muro con un tonfo sordo.
Ewan sente le gambe tremargli mentre fissa il vuoto di quella stanza che improvvisamente puzza anche troppo di sangue: infine cade seduto a gambe divaricate mentre del rosso gli sgorga dalle labbra andando a dipingere come un pittore insicuro di un dettaglio la barba praticamente bianca.
Kevin si guarda intorno spaesato perché all'improvviso è come se non ricordasse nulla e fosse solo spaventato a morte da quello scenario, così, dopo aver lasciato cadere sul parquet sporco il coltello, comincia a fuggire senza voltarsi mai più indietro.
Era cosciente di ciò che aveva fatto, semplicemente non voleva averci a che fare.
Ewan socchiude gli occhi mentre si sforza di arrivare alla tasca dei calzoni da cui tira fuori un barattolino di plastica trasparente.
Tira fuori una pasticchetta gialla e mentre sta per cacciarla giù in un sussulto di gola i suoi occhi si fermano sul corpo di Veronica che si ostina contro la morte e continua a lottare per respirare, perché è questo l'istinto umano: però lei ha già capito che non sopravvivrà e con un ultimo tremolio di labbra prova a comunicarlo ad Ewan con un sorriso, come a cercare di non fargli pesare il fatto di non essere riuscita a salvarla.
Ma il rimpianto è forte.
La lingua di Ewan recupera avidamente e con dei movimenti viscidi la pasticchetta gialla dal palmo della mano e la porta in bocca.
A quel punto tutto comincia a perdere una qualsiasi parvenza di realtà, e fa freddo, ma non importa più nulla.
Ewan si sorprende a pensare che forse è meglio che la bambina sia morta infine: almeno non dovrà ricordare ciò che le è stato fatto.
E mentre Ewan cerca di scacciare anche questo suo ultimo pensiero logico dalla testa che ora si fa pesante, sente le palpebre che vengono tirate giù da una forza a cui non ci si può opporre e tutto ciò gli ricorda il sonno.

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