Capitolo 1

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Il suono della campanella rimbombò in tutta la zona della scuola. Nei giardinetti fuori dall'edificio, la ressa di persone si accingeva a entrare: c'era chi spegneva le sigarette, chi sistemava i libri nello zaino, chi si alzava da terra e chi semplicemente si stava avviando alle porte dell'istituto. Miranda guardò Jack e scosse il capo.
«Arriverà?» Domandò la donna, con il suo classico tono di voce basso, quasi timoroso. L'altro si passò una mano tra i capelli biondi, arruffandoli ancor di più di quanto già non fossero, e scrollò le spalle.
«Non ne ho idea. Di solito è sempre puntuale, magari non si è sentito bene ed è rimasto a casa,» suppose questi, sollevando poi lo zaino da terra e indossandolo. «A noi conviene muoverci, o Kendriks ci segnerà un ritardo. Non so te, ma io non voglio iniziare l'ultimo anno con un richiamo.»
«Sì, gli mando un messaggio e andiamo. Certo che avere Kendriks alla prima ora è veramente una sfortuna. Sai che l'anno scorso mi ha segnato un ritardo di trentadue secondi?» Disse la ragazza, mettendosi in spalla lo zaino e seguendo la calca di persone che entrava a scuola. Jack sorrise e annuì. Conosceva Miranda da tre anni, gliela aveva presentata Lane appena avevano stretto un legame di amicizia, ma quello era il primo anno in cui i tre amici erano riusciti ad avere un orario abbastanza comune. Solitamente non si vedevano spesso a scuola. Avevano sempre avuto la sfortuna di avere lezioni diverse, ma all'ultimo anno si accedeva a quelle facoltative e si erano accordati per seguire le stesse. Appena salirono i gradini ed entrarono, furono invasi dall'odore di alcool e profumatori d'ambiente classici della Fairview Union High School. Il corridoio dalla pavimentazione verdognola si estendeva per diversi metri dinnanzi a loro e più avanti si divideva in tre zone, che conducevano alle ali est, nord e ovest. Sulla destra e sulla sinistra vi erano gli armadietti e sopra ad ognuno di essi, era inciso il logo della scuola – un sole che tramontava sulle onde del mare – e le iniziali della stessa, FUHS.
«Ci vediamo in classe,» disse Jack, Miranda annuì e fece un cenno di saluto, poi si diressero ai rispettivi armadietti. Nella mente di entrambi aleggiava una sola domanda: dove era finito Lane Derrick?

Lane era in mostruoso ritardo. La sua sveglia non aveva suonato e, come se non bastasse, sua mamma si era dimenticata di preparargli il pranzo. Appena si alzò e notò l'orario, imprecò e si precipitò in bagno. Aprì l'acqua della doccia e, senza attendere che questa diventasse calda, si fiondò sotto al getto. Il freddo gli fece battere i denti, ma resistette fintanto che la calda non cominciò a sgorgare nei tubi e riversarsi sul corpo nudo del ragazzo. Si concedette due minuti di riflessione mattutina, mentre l'acqua si insinuava in ogni anfratto del suo corpo. Sapeva che non aveva il tempo di rilassarsi, quindi si insaponò in fretta e si sciacquò, poi uscì dalla doccia e si asciugò con l'accappatoio azzurro che gli andava piccolo, visto che lo aveva da almeno sei anni. Mentre usava il phon sull'ammasso indefinito di capelli castani con riflessi biondi che aveva in testa, si guardò allo specchio e notò come avesse un aspetto troppo trasandato. Da quando c'era stato il funerale di Janine Carlyle, lui non aveva praticamente più dormito. Ogni volta sognava scenari in cui Dylan uccideva sua madre e Lane era lì, in ogni scenario non andava alla polizia e il senso di colpa lo corrodeva. Notò come i suoi occhi marrone chiaro apparissero stanchi, debilitati. In realtà non sembravano nemmeno più loro. Lane aveva degli occhi molto particolari: un marrone talmente chiaro da sembrare arancione che sfumava in scala rispetto all'iride, ma in quel momento erano semplicemente marroni, vitrei, stanchi. Scrollò le spalle e si diede una mossa. Si portò in stanza, poi afferrò le sue Converse rosse, un paio di jeans scuri e una felpa grigia. Indossò il tutto, poi si accertò di prendere dei soldi, lo zaino e una giacca, quindi si apprestò ad uscire di casa, quando notò di non aver preso gli occhiali. Ci vedeva anche senza, ma la sua vista stava peggiorando mese dopo mese, così stava cercando di utilizzarli quanto più possibile, anche se gli davano un aspetto più nerd di quanto già non fosse. Una volta che li ebbe recuperati, si fiondò fuori e camminò a passo spedito verso la scuola che distava una decina di minuti di autobus da casa sua, quindi avrebbe dovuto camminare mezzora. Erano passati appena cinque minuti quando passò davanti alla villa dei Carlyle. La facciata bianca era maestosa, così come il giardino perfettamente curato e una fontana posta al centro del sentiero che conduceva all'ingresso della casa. Sul fatto che i Carlyle navigassero in ottime acque non vi era dubbio. Erano da sempre la famiglia più prosperosa di Fairview. Lane decise di fermarsi qualche secondo – tanto ormai sarebbe dovuto entrare alla seconda ora – per immaginarsi lì, in quella casa, con cameriere e donne delle pulizie. Purtroppo non aveva avuto la stessa fortuna, era nato in una famiglia normale che se la cavava agilmente, almeno fin quando suo padre non aveva deciso di tradire sua madre, portandola al divorzio. Dopo quel momento, suo papà sparì senza mai pagare gli alimenti all'ex-moglie, che fu costretta a fare due lavori per portare avanti la baracca. Lei era una donna forte, in gamba, di giorno faceva le pulizie in una scuola elementare, mentre di sera lavorava come cameriera in un bar in periferia. Lane avrebbe voluto aiutarla di più, ma lei non glielo aveva mai concesso. Gli aveva sempre inculcato il valore dello studio, della scuola. Studia, laureati e diventa importante. Non condannarti ad una vita di sofferenze come ho fatto io, era solita dire. E Lane voleva renderla orgogliosa di lui, quindi si impegnava come non mai a scuola. Perso nei propri pensieri, non si accorse che il cancello della villa si stava aprendo. Improvvisamente cominciò a sudare freddo e si voltò verso la strada, cercando di proseguire a passo svelto.
«Ehi,» lo fermò una voce che conosceva molto bene. Lane chiuse gli occhi e contò mentalmente fino a cinque prima di voltarsi, ostentando un sorriso.
«Ciao, Dylan,» disse, abbassando lo sguardò. Dylan era un ragazzo bellissimo: i capelli castano scuro erano perfettamente pettinati e un ciuffo controllato ricadeva sulla alta fronte. I lineamenti del volto erano morbidi, quasi infantili. Gli occhi erano azzurri e brillavano, sembravano trasparenti all'esterno e tanto più intensi quanto più ci si avvicinava al centro dell'iride. Indossava una giacca verde e un jeans scolorito che si attillava perfettamente al suo corpo. Era alto più di Lane, e decisamente più muscoloso: non per nulla era il capitano della squadra di football della scuola, invece l'altro era capitano di pizza e serie tv.
«Ti ho visto che fissavi casa mia. Aspetti qualcuno?» Domandò, mentre si dirigeva verso di lui. Lane sperò di non essere arrossito, ma non ci contò molto, quindi si gratto la nuca e scrollò le spalle, sempre tenendo lo sguardo basso. Non voleva incontrare i suoi occhi, la cosa lo intimoriva.
«No, in realtà mi ero uhm... fermato per allacciare la scarpa,» mentì. L'altro sorrise, non troppo convinto, ma non ne fece una questione di Stato.
«Non dovresti essere a scuola?» Gli chiese poi. Lane si morse l'interno di una guancia e alzò, per la prima volta da quando l'aveva incontrato, lo sguardo.
«Anche tu,» rispose, forse troppo freddamente. Dylan allargò le braccia e sventolò un paio di chiavi dell'auto.
«Ci sto andando infatti. Vuoi un passaggio?» Lane spalancò gli occhi e sentì la gola che si seccava. Un... passaggio? Lui aveva ucciso sua madre e sapeva che l'altro lo aveva scoperto. Perché gli offriva un passaggio? Forse per eliminare anche lui?
«Io... preferisco andare a piedi. Sai, fa sempre bene fare due passi,» chiarì, allontanandosi di mezzo metro. «Mi ha fatto piacere incontrarti, Dylan. Ci vediamo!»
«Insisto.» Quella parola giunse freddissima alle orecchie del castano. Un brivido gli corse lungo la schiena. Ora Dylan non sorrideva più. I due si stavano fissarono intensamente, entrambi seri, per un istante che sembrò lunghissimo, quando un'auto lampeggiò ed emise un suono. Lane saltò dallo spavento e l'altro trattenne una risata, mascherandola con un colpo di tosse, poi sventolò nuovamente le chiavi. «Salta su.»
«Okay,» riuscì a dire il castano, mentre si malediceva mentalmente. Avrebbe dovuto solo voltarsi e correre via, ma in quel momento non riusciva a fare altro che assecondarlo. Così si sedette dal lato passeggero e attese che l'altro lo imitasse, pregando silenziosamente che quello non fosse il suo ultimo giorno di vita. L'unica consolazione era che se c'era un modo migliore per morire, quello doveva per forza essere per mano di quel figo di Dylan Carlyle.

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