Epilogo

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Il vento, quando soffia tra gli alberi, sembra sempre portatore di cattive notizie. Messaggero del cielo che veglia su tutti, muove le fronde degli alberi, si insinua tra le case, sbatte le finestre e spodesta ogni ostacolo che lo separa dalla sua missione. Il cielo cinereo di quella serata primaverile ne era l'autentica dimostrazione. Dylan lo sentiva bene: gli stava portando un messaggio. L'acqua del lago si muoveva con lui, lo indirizzava, creando cerchi perfetti e onde maestose. Così respirò quell'aria ancora una volta, con una tristezza dipinta sul volto tetro e cupo che, perfettamente, si sposava con quell'ambientazione scura e negativa. Si voltò, rientrando nella baita e chiudendosi la porta alle spalle. Quello era il teatro tenebroso dove doveva assistere, da spettatore, al fallimento della propria vita. Se pensava che, solo poche ore prima, si sentiva in Paradiso, trovava difficile concepire la tristezza che stava vivendo in quegli attimi. Era proprio vero: più in alto si finiva, più faceva male la caduta. E Dylan poteva confermarlo, ne era la prova. Osservare quelle quattro pareti in legno non faceva altro che provocargli un'immensa sensazione di tristezza, la consapevolezza di aver perso l'uomo della sua vita per sempre. Era la sua ultima ancora, la motivazione per cui non era già fuggito da Fairview. Si era limitato, un mese prima, ad affittare quel posto, sperando di non doverlo mai usare per nascondersi dallo Sceriffo. Perdere Lane era la cosa peggiore che potesse capitargli. Sapeva che avrebbe dovuto confessargli il tutto, ma come poteva ammettere di essere un assassino? La sua vita era sempre stata difficile, un cumulo di sofferenze senza fine. Ma sorrideva, lo faceva sempre, e cercava di essere migliore. Chi semina raccoglie, dice un famoso proverbio. Lui aveva seminato tante cose e ne aveva raccolte molte di meno. Ma non avrebbe mai smesso di seminare. Poi era arrivato lui, la sua ancora, la sua salvezza. Aveva immediatamente visto qualcosa in quegli occhi così sinceri, così veri. Aveva capito che era lui, che finalmente avrebbe potuto raccogliere. Ma la verità era che Dylan non meritava quello. E la vita si era ripresa ciò che gli aveva dato, punendo i suoi errori un'altra volta. Non aveva bagagli da fare, sarebbe partito da solo, con la sua tristezza. Sperava di lasciarsi tutto alle spalle, ma sicuramente non avrebbe potuto farlo. Non con lui. Sarebbe sempre rimasto nella sua mente e nel suo cuore, come un'ombra che non l'avrebbe mai abbandonato. Afferrò il cellulare e compose un numero che sapeva a memoria. Pochi squilli dopo, una voce grossa rispose.
«Dove sei? Ti stanno cercando tutti,» disse Byron, con il solito tono minaccioso.
«Mi dispiace, papà,» rispose Dylan, mentre fissava il vuoto.
«Di cosa?» Chiese il genitore. L'altro tirò su col naso, scosso dalle lacrime e dai singhiozzi.
«Mi dispiace di tutto. Sei stato un padre per me più di quanto lei sia stata mia madre. A modo tuo mi hai voluto bene e io ti ringrazio,» ammise Dylan, ansimante.
«Dylan, ti prego, non fare sciocchezze. Vieni qua e risolveremo tutto.» L'altro rise, scuotendo il capo.
«No, papà, è troppo tardi. Sto... andando all'aeroporto. Addio.» Riattaccò, scoppiando definitivamente in un pianto liberatorio. Aveva mentito a suo padre, sapeva che con ogni probabilità stavano intercettando il suo telefono, così li avrebbe dirottati su una falsa pista. Cercò di riprendersi, ma si ritrovò a fissare il punto in cui Lane gli aveva detto addio. Si appoggiò alla parete con entrambe le braccia e cominciò a prenderla a pugni, sbucciandosi le nocche e scheggiandosi le mani. Non importava, voleva solo smettere di piangere. Si voltò, accostando la schiena al muro in legno, e si lasciò cadere. Prese la testa e se la portò tra le gambe, quindi chiuse gli occhi. Immaginò Lane che lo teneva per mano, che gli sorrideva e gli diceva che sarebbe andato tutto bene. Guardò l'orologio e vide che erano le otto e mezza. Non tutto era perduto: doveva sperare fino all'ultimo secondo che si sarebbe presentato. Si asciugò le lacrime, mise il cappuccio e uscì. Aggirò la baita, andando sul retro. C'era un telone di almeno quattro metri per due. Lo scoprì e mise in mostra una Harley-Davidson 883. Indossò il casco e montò su, quindi partì. Aveva comprato quella moto sempre per depistare lo Sceriffo. Avrebbero cercato la sua auto, si sarebbero divisi in due gruppi: uno alla baita e uno all'aeroporto. Lui, in moto, avrebbe raggiunto la stazione ferroviaria e li avrebbe battuti sul tempo. Quando si fossero accorti che lui non era dove pensavano che fosse, sarebbe stato troppo tardi. Arrivò venti minuti dopo alla stazione. Lasciò la moto nel parcheggio e scese, proseguendo a piedi, sempre col cappuccio tirato su. Aveva scelto il treno e non, per l'appunto, la sua Harley, per due motivi: il primo era Lane, il secondo era che probabilmente ci sarebbero stati dei posti di blocco. Lane...
Si fermò nella sala d'attesa, seduto tra la folla. Teneva la testa bassa, ma adocchiava costantemente l'ingresso. Il suo cuore non smetteva di accelerare il battito. Sperava, con tutte le sue forze, che Lane si sarebbe presentato a quell'appuntamento. Ripensò a loro due ancora una volta: in particolare ai loro primi incontri. Quando Dylan diede quel passaggio all'altro, lo fece perché fin da subito aveva visto qualcosa in lui. Fu così divertente spaventarlo, portarlo con lui. Ancora rideva al solo pensiero. Poi si ricordò delle uscite al Roby Club, di quando Lane venne a prenderlo e lo convinse di valere qualcosa. Lì non ebbe più dubbi: capì definitivamente di avere trovato la persona che cercava. E di quando fecero l'amore, la notte del ballo. Indubbiamente la migliore nottata della sua vita. Non per il sesso, no. Per la compagnia, perché era con lui. Perché ballarono, bevettero, risero, si coccolarono. Dormirono assieme, mano nella mano, abbracciati. Non l'aveva mai fatto nemmeno con Lisa, e probabilmente non l'avrebbe mai fatto con nessun'altro. Si guardò l'orologio: segnava le nove e un minuto. Le lacrime ripresero a scorrere inesorabili sulle guance del quarterback. Si alzò, con la vista appannata. Percorse tutto il corridoio che lo separava dal binario sei, quello dove sarebbe partito il diretto per Seattle, nello Stato di Washington. Aveva scelto quella tratta perché era l'unica che sarebbe uscita dall'Oregon, dove lo Sceriffo non avrebbe avuto giurisdizione. Aveva pianificato tutto: prima aveva fatto dei biglietti online con nomi falsi, li aveva pagati con una prepagata che aveva costituito a Portland. Da Seattle sarebbe partito per il Canada, e non si sarebbe mai voltato indietro. Le porte del treno erano aperte. Lui sospirò e salì, rimanendo in piedi. Si girò, osservando Fairview. Improvvisamente, sentì di non potercela fare. Non voleva partire senza di lui, non poteva abbandonarlo. Forse se fosse rimasto avrebbe avuto una possibilità. Gli avrebbe dimostrato di essere un uomo, di prendersi le sue colpe. Ma sarebbe andato in prigione. Lane non avrebbe mai condiviso la sua vita con un carcerato. Forse, allora, era meglio così. Lane non sarebbe partito con lui, avrebbe vissuto la sua vita. Sì, si disse che era la cosa migliore. Sorrise, si asciugò le lacrime e si voltò. Poi lo sentì: una voce lo chiamava. Era nella sua testa? Si girò ancora e lo vide. Lui era lì. Si appoggiò alle porte del treno per non cadere e riprese a piangere, ma questa volta dalla gioia. Lui era lì!
«Dylan, scusami per il ritardo. Dio, pensavo di aver perso il treno. Io... io ti amo, Dylan, ti amo tanto. E ti perdono per tutto,» disse Lane, affannato per la corsa, L'altro lo cinse in un abbraccio e lo baciò dolcemente.
«Come sapevi su che treno ero?» Chiese, incredulo. Lane sorrise.
«Andiamo, ti conosco. Sapevo che eri abbastanza intelligente da scegliere Seattle,» rispose Lane. Dylan lo strinse fortissimo e appoggiò la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi. La sua vita poteva finire in quel momento, per quanto lo riguardava. Era felice come non mai.
«Grazie,» disse, in lacrime. Lane gli afferrò il volto con le mani e usò i pollici per asciugargli le guance.
«Ehi, non piangere. Ci siamo, siamo io e te. Siamo insieme.» Dylan annuì, quindi sorrise e si staccò. Gli prese la mano, ed entrambi si voltarono verso le porte. Qualche secondo dopo, queste si chiusero davanti ai loro occhi, e dai vetri i due scorsero per l'ultima volta la bella Fariview, dicendole addio per sempre. Le loro vite si erano trovate quando erano in difficoltà, si erano unite, combaciando perfettamente. Erano l'uno il destino dell'altro, l'uno la salvezza dell'altro. E sicuramente sarebbe durato ancora tanto, sicuramente quel momento di gioia non sarebbe finito presto. E quando sarebbe successo, loro sarebbero stati felici, in quanto avrebbero condiviso talmente tanto da essere saturi. Perché non era semplicemente amore, no, era qualcosa di più. Loro erano una cosa sola, un'unica anima divisa in due corpi. Avevano scherzato, riso, pianto, gioito, amato e odiato insieme. Si erano presi, lasciati, insultati, desiderati e, infine, avevano ceduto. Si erano accorti di cosa fossero l'uno per l'altro. E tutto questo era accaduto in un anno. No, non uno qualunque. Il loro ultimo anno...

The Last YearDove le storie prendono vita. Scoprilo ora