Elena si portò la tazza alle labbra, lasciò entrare nel suo corpo il tepore della tisana, mentre fissava le stelle attraverso la finestra.
Dopo l'incidente aveva sempre detto a Jeremy che sua madre e suo padre erano lì, nel cielo, a vegliare su di loro. Di guardare attentamente le due stelle più grandi, le più luminose, perché li avrebbe riconosciuti in esse.
E forse stupidamente, ci credeva ancora.
Quanto avrebbe desiderato che in quel momento i suoi genitori fossero più di semplici stelle. Che l'avessero stretta forte, perché quella sera si sentiva a pezzi.
Per la prima volta in cinque anni si era insinuato nella sua mente il dubbio che Stefan le avesse mentito, e su qualcosa di importante. E la parte peggiore era che non poteva chiedergli spiegazioni."Io sono Damon, il fratello di Stefan."
"Non mi aveva detto di avere un fratello."
Le parole le uscirono spontanee, prima che potesse fermarle, prima di potersi rendere conto di quanto suonasse patetico. Ma non aveva saputo come altro reagire ad un'affermazione del genere.
"Be', Stefan non è uno a cui piace vantarsi."
Le rispose lui, ed Elena restò di sasso di fronte a quella reazione. Sembrava così tranquillo, come se fosse una situazione totalmente normale.
"Tu...hai le chiavi di casa mia, ti fai trovare qui come se niente fosse dicendomi di essere il fratello di un uomo che conosco da cinque anni. E ti sembra tutto okay? Una cosa sulla quale scherzare? Per quanto mi riguarda potrei chiamare la polizia."
"Innanzi tutto questa è anche casa mia, perciò vacci piano, va bene?" Alzò un braccio e le fece tintinnare un mazzo di chiavi proprio sotto al naso. "E poi, se lui non te ne ha mai parlato, che colpa vuoi che ne abbia io?"
"Non ti credo." Elena incrociò le braccia sotto il seno e fece un passo indietro, si disse che non poteva essere vero, che quell'uomo doveva essere un pazzo. Ma cosa aveva fatto di male? Perché in quei giorni il mondo aveva deciso di prendersi gioco di lei?
"Va bene, va bene, mi hai scoperto: non è vero che non ne so nulla. Io vivo a New York da molto tempo, e non sento Stefan da altrettanto. Non siamo legati. Va meglio ora?"
"No, affatto. Perché dovrei fidarmi?"
"Questo aiuterebbe?"
Le mostrò la sua mano destra, e lei schiuse la bocca di qualche centimetro. Portava un anello, un anello blu, un lapislazzulo, come quello di Stefan, l'unica differenza stava nella lettera incisa alla centro, che per lui era una D.
"È uno stemma di famiglia. Mi credi, adesso?"E lei gli aveva creduto. Forse come una perfetta idiota, ma si era detta che oggetti di quel tipo non si rimediavano ovunque, e se quel Damon ne aveva uno, qualcosa doveva pur voler dire.
Così lui in quel momento si trovava in quella che diceva di essere la sua stanza, a pochi metri da lei, e questo non la faceva sentire per niente bene. Come aveva potuto permetterglielo? Posò la tazza nel lavandino e si fiondò a passo spedito verso le scale, salì al piano di sopra e spalancò la porta senza bussare, perché diamine, non avrebbe bussato in casa sua.
"Devi spiegarmi." Disse, decisa. Lui si voltò, con la federa del cuscino che stava sistemando tra le mani, e un'espressione interrogativa. Elena si concesse di guardarlo meglio, di cercare di notare qualche somiglianza tra lui e Stefan, ma non ci riuscì. Gli occhi intensi e profondi del suo ragazzo non avevano niente a che fare con quelli cristallini che la stavano fissando, e il ciuffo che ricadeva sulla fronte di quello sconosciuto era troppo scuro, troppo ribelle, per assomigliare alla capigliatura sempre impeccabile di Stefan. I lineamenti di Damon sembravano essere più marcati, la mascella più pronunciata, le gambe un tantino meno lunghe, le labbra più delineate. Era così diverso.
"Scusami?"
"Ho detto che voglio spiegazioni." Ripeté lei. "Io non posso dormire sapendo che un perfetto sconosciuto sta a pochi passi di me, è impensabile e inquietante, chiaro? Perciò parla, oppure, ti prego, ti prego, vattene. È già tutto abbastanza difficile."
"Allora perché mi hai permesso di restare meno di un'ora fa?" Le chiese lui, assottigliando lo sguardo, ed Elena lo odiò. Credeva davvero di essere dalla parte della ragione?
"Perché mi avevi convinto con l'anello, e penso ancora che se lo hai, è davvero probabile che tu faccia parte della famiglia del mio fidanzato, ma non ti voglio qui. Non so chi sei."
"Va bene, allora cominciamo da capo." Sospirò lui. Lanciò il cuscino sul letto, si leccò le labbra ed infine le tese la mano. "Piacere, mi chiamo Damon Salvatore."
A Elena venne quasi da ridere, quella situazione era talmente strana da risultare comica, e lui era un cretino.
"Potresti per favore stringerla, così da non farmi sentire un deficiente completo? Grazie."
"Va bene, okay. Elena Gilbert. Ma questo non cambia le cose."
Lui la ignorò. "Sono nato qui, a Mystic Falls. I miei genitori si chiamavano Lily e Giuseppe. Avevo sette anni quando la pancia di mia madre iniziò a crescere a dismisura, e pochi mesi dopo nacque Stefan. Piangeva tutto il tempo da piccolo, è sempre stato più sentimentale di me. Io giocavo a pallone, infastidivo le ragazzine e facevo i dispetti alle signore anziane, mentre lui se ne stava seduto sul suo sgabello a leggere."
" Va' avanti."
"Mio padre aveva un piccolo studio legale a Richmond, che con il tempo si ingrandì, portandoci a trasferirci. In un modo o nell'altro io finii il liceo, ma non avevo nessuna intenzione di iscrivermi al college, così me ne andai, stanco di dover stare a discutere con la mia famiglia giorno e notte. Mia madre quattro anni dopo si ammalò e tornai, ma quando morì, Stefan e mio padre decisero di tornare qui. Io non ne avevo nessuna intenzione. Non vedo mio fratello da allora, e se te lo stai chiedendo, no, non ero presente al funerale di nostro padre due anni e mezzo fa."
Elena non sapeva cosa dire. Quel racconto, per quanto non volesse ammetterlo a sé stessa, le sembrava quasi sensato, e tante cose le tornavano, come la professione del papà di Stefan, la malattia di sua madre, che non aveva mai conosciuto, o il periodo in cui erano arrivati in città, che sembrava coincidere.
"Neanche Giuseppe mi ha mai parlato di te, ed io l'ho conosciuto." Confessò, poiché era una delle uniche cose che non le tornavano.
"Lasciami dire che non ne sono sorpreso." Rispose, facendo un sorrisino amaro. "Non siamo mai andati d'accordo, ma proprio mai. Ho smesso di essere suo figlio tanto tempo fa. Ora sai tutto quanto, ma se vuoi posso trovarmi un'altra sistemazione per un po'. Capisco che per te possa essere strano, in effetti. Ma tornerò con i documenti, sappilo."
"No." Rispose Elena, ed era sicura che se ne sarebbe pentita. "Resta. Se è vero quello che dici, questa casa è più tua che mia." Ammise, sospirando.
"Ti ringrazio."
"Posso solo farti un ultima domanda?"
"Va bene, purché sia l'ultima." Scherzò, ma Elena non ci fece caso.
"Perché sei tornato?"
Damon guardò prima lei, poi il pavimento, ed infine lei di nuovo.
"Mi hanno chiamato, essendo il suo parente più stretto. Ed io dovevo esserci, perché nonostante tutto, rimane il mio fratellino."
"Il tuo fratellino aveva bisogno di te quando hanno seppellito vostro padre."
Lo disse, e non se ne pentì, neanche per un momento. Perché lei aveva assistito, era lì a stringere il corpo scosso dai singhiozzi di Stefan, mentre la tomba di Giuseppe veniva calata sotto terra, e non si sarebbe mai dimenticata del modo in cui lui si aggrappava alla sua maglietta, straziato e consumato dal dolore di aver perso definitivamente tutta la sua famiglia.
"Buonanotte, Damon.""Ti ha dato di volta il cervello? In casa tua?"
"Stamattina mi ha fatto trovare l'atto di proprietà sul tavolo della cucina, perciò no, Care, a quanto pare si trova in casa sua."
Caroline spense l'auto ed Elena smontò, ritrovandosi nell'ormai, suo malgrado, familiare parcheggio dell'ospedale. Sospirò, spostandosi i capelli dalla faccia, ma il vento che soffiava quel giorno in quella piccola cittadina della Virginia sembrava non darsi per vinto.
"Perché nessuno mi ha chiamato? Possibile che stia ancora dormendo? Voglio dire, sono passati quasi tre giorni, non può essere normale." Rifletté ad alta voce, salendo le scale che portavano in terapia intensiva. "Avevo detto a Meredith di tenermi informata, ma a quanto pare non si è preoccupata di farlo."
"Ti sbagli, Elena."
"Be', io non credo proprio." Si voltò, trovandosi la dottoressa proprio di fronte a lei. "Nessuno si è degnato di alzare il telefono per aggiornarmi, cosa dovrei pensare?"
"Venite nel mio studio."
Elena obbedì, seguendola in una piccola stanza grigia e sedendosi su di una poltroncina con Caroline. Meredith si posizionò dall'altra parte della scrivania, iniziando a guardarla in un modo che la fece agitare non poco.
"Dimmi ciò che devi dirmi, ti prego." La supplicò, andando a toccarsi il ciondolo che Stefan le aveva regalato qualche tempo prima. "È...peggiorato?"
"No, non si tratta di questo." Scosse la testa, tamburellando le dita sul tavolo.
"Il cervello è una macchina meravigliosa, Elena." Iniziò. "Ma, in casi come questo, può essere danneggiato. Quando il cervello è troppo danneggiato per continuare a funzionare si parla di morte cerebrale: tutti i pensieri cessano, come anche tutti i controlli involontari su respiro e ritmo cardiaco. Senza le apparecchiature mediche la persona morirebbe subito. Ma questo, fortunatamente, non è il caso di Stefan."
"Perché me ne stai parlando, allora?" Chiese Elena, con la voce ridotta ad un rantolo.
"Perché esiste una secondo opzione. Se il cervello è danneggiato ma non al punto di smettere completamente di funzionare si ha lo stato di coma: l'attività si riduce al minimo e la persona non è più consapevole. È come se dormisse in un sonno senza sogni da cui non può essere svegliata."
"Stefan è in coma?" Fu Caroline a chiederlo, perché la ragazza con la pelle olivastra seduta accanto a lei stava trattenendo il fiato. Non aveva la forza necessaria per digerire un altro colpo del genere, proprio no.
"Ma tu avevi detto..." Farfugliò "Avevi detto che il come era farmacologico, e che lui si sarebbe svegliato presto."
"Il suo cervello non è pronto, Elena. Non è pronto a riprendere la sua funzione, è come se, dopo questo forte trauma, avesse bisogno di un po' di riposo. Ma dal coma si può uscire, e infatti la maggior parte dei pazienti si risveglia in breve tempo grazie alle cure dei medici. Il risveglio però non avviene di colpo come nei film; il paziente passa attraverso varie fasi che lo portano dalla totale assenza di reazioni alla consapevolezza e al contatto con il mondo che lo circonda. E noi dovremo aiutarlo."
"Come? Che devo fare? Perché qualsiasi cosa, qualsiasi, che potrebbe farlo stare meglio, io la farò." Elena allungò la mano fino a stringere quella della dottoressa, in una tacita richiesta di aiuto.
"Parlagli, fagli ascoltare della musica, leggigli un libro, insomma, dagli degli stimoli. Costantemente. Questo aiuterà il cervello a reagire."
"Va bene, d'accordo. Posso vederlo?"
"A dire la verità, in questo momento, c'è già qualcuno in stanza con lui."Mystic Falls, 1996
"Stefan! Stefan prendi! Dai!"
Damon lanciò la piccola palla di gomma in direzione di suo fratello per la millesima volta, e lui, come sempre, la seguì con i suoi grandi occhioni verdi e rise, battendo le mani.
"Ha solo un anno, ancora non puoi giocare a pallone con lui, Damon." Gli sorrise la madre, chinandosi, per passare una mano nella sua capigliatura sbarazzina. Lui la guardò, incrociò le braccia e fece il broncio.
"Ma mamma" si lamentò "A me piace tanto il Football e voglio che piace anche Stefan. Voglio giocare con lui, quando diventa grande?"
Lilian sorrise, sapeva che tutto ciò che Damon desiderava era condividere le sue passioni con il fratello e insegnargli a vedere il mondo. Era così impaziente di viversi Stefan, e lei sperava più di ogni altra cosa che una volta cresciuti si sarebbero vissuti davvero, nel bene e nel male, che sarebbero stati la coppia migliore di sempre.
"Piano piano, lo diventerà. E tu ci sarai sempre per lui, non è vero?"
"Certo, mamma!" gridò, sorridendo. "È il mio fratellino!"
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unsteady || the vampire diaries
FanfictionElena Gilbert stava girando il sugo quando le squillò il telefono. Sì, il sugo. Ed era strano, curioso, perché lei non cucinava mai, aspettava sempre che fosse lui a farlo, con il suo grembiulino bordeaux e quel sorriso che sapeva di primavera. Le...