"Ti ho lasciato decine di messaggi in segreteria."
"Sì, li ho ascoltati. Spero tu abbia passato un buon Natale." Non avanzò oltre, rimanendo rigido nella sua posizione, appena davanti le porte della cucina. "Non avresti dovuto disturbarti a venire fino a qui, qualunque sia il motivo della tua visita. Tra poche ore questo posto scoppierà di persone, molte delle quali finiranno per ubriacarsi, ed io sarò sommerso di cose da fare. Mi dispiace."
"Qualunque sia il motivo della tua visita? Stai facendo sul serio?" Elena alzò la voce, esasperata. Perché d'accordo, poteva aver sbagliato a rivolgersi a Katherine senza dirgli nulla, ma quel trattamento proprio non se lo meritava. C'era un limite a tutto, e lei aveva affrontato per Damon un viaggio, lasciando a casa Stefan in Dio sapeva quali condizioni, rinunciando a trascorrere del tempo con suo fratello, che di lì a poco sarebbe ripartito, e perché no, a un po' di svago con i suoi amici. Aveva sacrificato tanto perché ci teneva davvero scusarsi, a recuperare, e non poteva continuare a trattarla in quel modo dopo la dimostrazione lampante di quanto lei ci tenesse.
"Sì, sto facendo sul serio." Continuò imperterrito. "Non ti fidi di me, giusto? E i rapporti umani, di qualunque genere, si basano sulla fiducia. Ragione per cui, il nostro, non ha più ragione di esistere. Perciò, che ci fai qui, io proprio non lo so."
Perse il controllo.
E succedeva di rado: Elena era paziente, accomodante, compassionevole. Ma di fronte a quell'atteggiamento, quella finta freddezza che si ostinava a voler dimostrare, le schizzò il sangue alla testa.
"Vaffanculo!" Sbraitò, avvicinandosi a lui a passo spedito e spingendolo all'indietro. "Vaffanculo, cazzo! Sei un cretino, io non...Come puoi?!" Proseguì, mettendoci più forza, fino ad a farlo barcollare. "Come puoi comportarti come se tra me e te non ci fosse mai stato niente! E continuare con questa storia della fiducia, Damon, ma vuoi renderti conto della mia situazione? Sei apparso dal nulla, dopo che io credevo di conoscere il mio fidanzato, e mi hai vomitato addosso una verità che tutt'ora fatico ad accettare, te ne rendi conto? Puoi provare a metterti nei miei panni? Avevo bisogno d'informazioni, non potendomi rivolgere direttamente a lui, informazioni da altri punti di vista, possibile che tu non riesca a capirlo? Vaffanculo!"
"Calmati." Di nuovo, non si scompose.
Freddo, glaciale, seppur i suoi occhi raccontassero un'altra storia.
Elena frugò nella sua borsa, ne estrasse un quadernino in pelle marrone, vecchissimo, con le pagine ingiallite. Non lo aveva mai usato, fino a qualche giorno prima.
Lo schiaffò nelle mani di Damon, senza se e senza ma.
"Quando avrai voglia di parlare, perché ce l'avrai, sai dove trovarmi. Stammi bene."
Poi, senza guardarsi indietro, compose il numero di telefono dell'unico volto non totalmente sconosciuto che aveva in quella città.
"Ho bisogno di una guida turistica, credo. E so che non ci conosciamo, che è l'ultimo dell'anno e avrà di meglio da fare, una volta finito il suo turno, ma non sapevo dove altro sbattere la testa."
"Dammi mezz'ora. E del tu."
Elijah.
Per quanto ne sapeva avrebbe potuto tranquillamente essere un assassino, ma non è che avesse molta scelta. Non aveva prenotato un hotel, e il pullman per la Virginia non sarebbe partito prima della mattina dopo. Non pretendeva certo che lui la ospitasse, ma era sicura che da sola si sarebbe persa, e così scelse di fidarsi.
Andò piuttosto bene, in realtà.
Lui le mostrò tutto il quartiere di Manhattan, parlando a macchinetta dei monumenti, degli edifici e delle strade. Sempre quel tono di voce serio e professionale, quasi fosse davvero, una guida turistica. Sembrava parecchio ingessato, ed Elena glielo fece notare.
"Sembri imbarazzato. Cioè mi dispiace, forse ti sei sentito costretto? Se hai altro da fare io lo capisco, non preoccupar-"
"Elena, se avessi voluto essere da un'altra parte, ci sarei stato." Sorrise. "Credimi, è solo il mio modo di essere."
"Sicuro?"
"Sicuro." Annuì. "Che dici, pausa caffè?"
E così si fermarono in uno Starbucks, ed Elena si disse che, anche se non era andata come sperava, per lo meno aveva trovato un amico.****
"New Orleans? Dio, dev'essere stupendo! E perché non stai passando lì, le festività? Con la tua famiglia?"
"Rebekah e Freya, le mie sorelle, stanno festeggiando in vacanza con le loro dolci metà, e per questo Klaus, che detesta da sempre stare in quella casa tanto grande da solo, ha deciso di venire qui. È arrivato ieri, ma non è che io l'abbia visto molto, presta più attenzione alla città che a me. E poi dovevo lavorare."
"Mi sto di nuovo sentendo in colpa." Sbuffò Elena. Era una ladra di tempo, e quel poveretto la sua vittima. Eppure era piacevole la sua compagnia.
Elijah ruotò gli occhi al cielo. "Sul serio, siamo un'altra volta a questo punto?"
"È che mi dispiace, ti sono piombata così tra capo e collo...ma che ore sono? Devi andare a casa a preparare la cena, ed io devo cercarmi una sitemazione per la notte." Riflettè lei ad alta voce, tornando alla realtà, per quanto dura fosse. "Grazie. Grazie perché questo pomeriggio mi hai fatta sentire solo una ragazza, solo una turista. Senza tutti i miei problemi."
"Figurati, Elena. Per me è stato lo stesso." Le disse lui, e sembrava sincero. "Se vuoi che ti dia una mano a cercare...È tuo, il telefono che sta squillando?"
"Come? Oddio, sì..." Sovrappensiero, nemmeno aveva fatto caso alla suoneria buca timpani che risuonava per il bar. "Pronto?"
"L'ho letto."
Così.
Due parole.
Secche.
Dirette.
Le mancò il fiato, nonostante tutto. E non rispose.
"Vorrei...lo so che sono uno stronzo, e che ti chiedo molto, ma potresti tornare qui? Devo parlarti ma non posso allentarmi dal locale, non adesso."
Silenzio. Un silenzio nel quale Elena pensò a quanto fosse ingiusto quel 'ti devo parlare', e quando era lei, che ne aveva avuto bisogno, lui dov'era?
Sospirò. Dopotutto, era lì per quello.
"Arrivo."
Elijah era un santo, non c'era altra spiegazione. La lascio di fronte al Red Angel, di nuovo, e quando Elena si voltò, lui non c'era più.
Damon aveva ragione: il pub era pieno, e lei fece quasi fatica a farsi strada fino al bancone.
Era strano in quella veste, col grembiule, la fronte corrucciata, una birra in una mano e uno scontrino nell'altra. Dopotutto, si disse, doveva essere perché lei non l'aveva mai visto lavorare.
"Dov'eri? Ci hai messo tanto ad arrivare."
Ah, quindi dopo la scenata di prima, pensava anche di poterla tenere sotto controllo? Dio, era così presuntuoso.
"Ho visitato un po' la città." Era fredda anche lei, adesso. Reduce dall'incazzatura di prima e infastidita da quell'interrogatorio.
"Da sola?"
"È importante?" Sbottò, sfilandosi il cappellino, incapace di tenersi le mani in mano per il nervoso.
"Quindi è un no." Proseguì, testardo. Però, poi, allentò la presa. "Hai fame? Ti faccio preparare qualcosa, un toast, un hamburger? Insalata di finocchi scondita?" Abbozzò un sorriso, quello solito, quello sghembo che ti faceva venire voglia di prenderlo ail schiaffi. Elena si morse il labbro per evitare di dargli soddisfazione, non poteva. Era troppo strano, quel cambio repentino di umore, e lei non lo avrebbe assecondato.
"Un toast andrà benissimo, grazie." In realtà non aveva pranzato e avrebbe azzannato anche una gamba del tavolo, ma preferì tenerselo per sé.
"Ti propongo una cosa, e sei liberissima di rifiutare." Disse poi, dopo aver annuito e avvisato un cameriere di mandare subito l'ordine in cucina.
"Okay."
"C'è troppa confusione, non mi va che tu stia qui. Mangia, poi, proprio là dietro, c'è una scaletta che va di sopra, ha una catena con scritto vietato l'accesso, ma tu sei autorizzata. Comunque, porta al tetto. Aspettami lì."
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unsteady || the vampire diaries
FanfictionElena Gilbert stava girando il sugo quando le squillò il telefono. Sì, il sugo. Ed era strano, curioso, perché lei non cucinava mai, aspettava sempre che fosse lui a farlo, con il suo grembiulino bordeaux e quel sorriso che sapeva di primavera. Le...