.:Capitolo sei:.

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La giornata procedette con quella lentezza gradita tipica della routine. Aveva imboccato la piccola stradina che fungeva da scorciatoia per casa sua quando una mano le venne schiacciata sulla bocca mentre quella opposta le si stringeva sul collo.

Il panico l'avvolse. Fece quanto era nelle sue capacità per divincolarsi, ma fu tutto inutile. L'individuo alle sue spalle sembrava fatto di marmo. L'unica cosa che ottenne fu riuscire ad immagazzinare una quantità di ossigeno pari a zero.

Improvvisamente venne scaraventata contro un muro laterale. L'impatto coi mattoni la fece crollare a terra, e lì rimase, stordita, non riuscendo a riprendere totalmente conoscenza. Aveva lo sguardo sfuocato, l'unica cosa che riusciva a vedere era un'ombra, che si stava avvicinando. Tentò di urlare, o muoversi, ma il suo corpo non sembrava essere interessato a sopravvivere.

Chi diavolo era? Cos'aveva fatto per scatenare tanta ira? Un vecchio spacciatore? Un ubriaco? Uno stupratore?

Vide delle scarpe nere fermarsi a pochi passi dal suo viso, appoggiato sul cemento sporco e umido. Odore di cuoio.

Sentì uno schiocco di lingua, e l'istante successivo uno di quei piedi non era più appoggiato a terra, ma affondato nel suo stomaco.

Il dolore fu così lancinante da mozzarle il respiro. Non emise un suono, ma subito dopo si trovò a riversare tutto ciò che aveva mangiato durante il giorno, insieme a degli schizzi di sangue, sul marciapiede lercio di quel vicolo dimenticato da Dio, per poi perdere i sensi.

Riaprì gli occhi con tale fatica che per poco non si mise ad ansimare. La testa le pulsava e le sembrava di avere la colica più dolorosa della sua vita, ma nonostante ciò si accorse immediatamente di non conoscere il luogo in cui si trovava. Non era più nel vicolo, né a casa sua e neppure all'ospedale.

Ambiente in penombra, arredamento che sembrava essere uscito da un catalogo di interni. Seppure molto in ritardo la ragazza comprese chi l'aveva assalita alle spalle. Ma perché ora l'aveva portata in quel posto? Non poteva lasciarla dov'era?

- Ben svegliata - una voce glaciale le fece spostare lo sguardo a destra, verso l'angolo più buio della stanza, dove una figura era in piedi, immobile, appoggiata al muro, e la fissava. Non vedeva il suo sguardo, ma lo sentiva, la graffiava. Gli bastava guardarla per procurarle dolore, eppure sembrava divertirsi ad infliggerglielo anche fisicamente.

- Te la sei presa comoda, non ti facevo così debole - la giovane non rispose, si limitò a mettersi seduta dandogli le spalle, combattendo giramenti di testa, nausea e fitte varie. - Devo ricordarti cosa è successo l'ultima volta che hai ignorato le mie parole? - continuò facendosi avanti.

La ragazza sentiva il frusciare dei suoi pantaloni farsi sempre più vicino, e percepì la paura montarle dentro, ma non si mosse e non parlò. Spostò le gambe fuori dal divano e appoggiò i piedi sul pavimento. Indossava ancora i suoi vestiti. - Mi stai ignorando di nuovo? - chiese digrignando i denti, afferrandole il mento e alzandolo verso il suo volto, mostrando finalmente un'emozione diversa dall'indifferenza.

La ragazza continuò a mantenere lo sguardo fisso sul pavimento, non sapendo bene dove quell'ostinazione l'avrebbe portata. La pressione del pollice e dell'indice dell'uomo sulla sua carne si fece più salda. - Guardami - ordinò a denti stretti. Lei non si mosse - GUARDAMI - esclamò, facendo sobbalzare la ragazza. A malapena lo aveva sentito mostrare qualche emozione, figurarsi alterare il tono in quella maniera.

Finalmente si decise a piantare i suoi occhi verdi in quelli glaciali di lui. Lo vide sbattere le palpebre, quasi sorpreso da quello che vi aveva trovato.

Rabbia. Era arrabbiata. Lui non aveva mai fatto così. Non l'aveva mai presa alle spalle, non le aveva mai fatto così male senza darle una spiegazione. Non era giusto.

La ragazza socchiuse le labbra - Perché? - sussurrò semplicemente. Era tutto quello che voleva sapere. L'unica cosa che le serviva sapere.

- Cosa? - chiese lui gelido, riprendendo il controllo della situazione, non distogliendo lo sguardo dal suo.

- Perché lo hai fatto? - chiese lei con tutto il coraggio e la forza che le rimanevano, mentre sentiva le palpebre farsi nuovamente pesanti.

- Perché, passerotto, tu appartieni a me, la tua vita è nelle mie mani - le rispose accucciandosi, raggiungendo il suo livello - è ora che tu lo capisca e la smetta di vivere come se fossi libera di fare quello che vuoi - la mente della ragazza stava cominciando a faticare per rimanere concentrata - ci hai messo anni per farmi entrare nel tuo appartamento, ma per un cazzone qualsiasi non ti fai problemi, giusto? Eri felice che qualcuno avesse apprezzato i tuoi sforzi per vestirti decentemente e renderti a mala pena presentabile, sbaglio? Finalmente è arrivato qualcuno a cui hai potuto aprire le gambe. Sei più puttana di quel che pensassi - una risata di scherno aleggiò nell'aria.

La ragazza inclinò leggermente la testa di lato - Se ti faccio così schifo perché sono qui...- fece appena in tempo a terminare la frase che perse i sensi, accasciandosi in avanti. Se l'uomo non l'avesse afferrata sarebbe crollata a terra di testa, aggravando la contusione che già aveva.

Lui ringhiò, colmo d'ira. La distese nuovamente sul divano e prese il telefono, digitò a memoria un numero e fece partire la chiamata. - Russell, mi servi, ora, nel mio appartamento - silenzio - Certo che è ancora viva... hai dieci minuti - e spense il telefono.





​Suilejade



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