.:Capitolo otto:.

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La sua vita era tornata a quella che doveva essere la normalità. O almeno era quello di cui tentava disperatamente di convincersi. Tutto era come doveva essere, quasi.

Erano passati due mesi dall'ultima volta che si erano visti. Lui non si era più fatto vivo, e lei non l'aveva più cercato. Qualche volta, quando passava nei vicoli più oscuri e meno frequentati un brivido di quella che, adesso, sapeva essere aspettativa, la attraversava, svanendo poi nella disillusione quando riusciva ad attraversare quei luoghi incolume.

Non poteva dire di averlo dimenticato. Lui era sempre presente nella sua memoria, in ogni minimo istante, in ogni cosa che faceva. Era andata a letto con parecchi uomini in quel periodo, sperando di ottenere qualcosa, ma il nulla era stato l'unica risposta. E quel nulla faceva male, ma non era il dolore che bramava.

Aveva cercato su internet qualche rimedio per quel suo "problema", non trovando però nulla che l'aiutasse davvero, ad eccezione del consiglio di andare da uno psicologo, che lei non aveva intenzione di seguire, ovviamente. Non considerava quel "problema" un effettivo problema, solo un qualche malfunzionamento momentaneo della sua mente, considerando che non aveva mai provato quel desiderio se non in sua presenza, e che, per l'appunto, da quando non lo vedeva più era come scomparso.

Sicura?

Era un tardo pomeriggio d'inverno quando le squillò il telefono. Da quando accettò la chiamata a quando la chiuse non riuscì a proferire parola. Si sedette sul bordo del letto fissando il vuoto, le orecchie che le fischiavano. Rimase in quella posizione per un tempo indefinito, la mente completamente vuota.

Non appena prese coscienza di quello che le era appena stato riferito scoppiò a piangere. E continuò per tutta la notte. Non aveva mai pianto così tanto.

Le uniche parole che riuscì a proferire furono quelle rivolte al suo capo, quando lo chiamò per avvertirlo della situazione. Da quel momento venne avvolta da una cappa di indifferenza. Guidò per ore senza guardare veramente dove stesse andando. Quando si ritrovò di fronte alla casa dei suoi genitori si chiese come ci fosse arrivata sana e salva.

Vide la porta aprirsi e suo zio venirle incontro. Il volto cereo e le braccia aperte, pronte a stringerla nel suo abbraccio accogliente. Non appena si sentì al sicuro, in quella stretta, ricominciò a piangere, inzuppandogli la spalla.

Un incidente. Erano morti sul colpo, entrambi.

I giorni che trascorse nella sua città natale sembravano più memorie di un sogno, piuttosto che qualcosa di reale. Tutto era sfuocato e i colori si confondevano. Ricordava a malapena il funerale, e ancora meno tutte le scartoffie che aveva dovuto sistemare per le questioni dell'eredità.

Quando tornò a casa sua le sembrava che la sua memoria avesse un vuoto di tre giorni. Sapeva che erano esistiti, ma non sapeva cosa avesse fatto in tutto quel tempo.

Entrò in camera sua, la stessa stanza in cui si trovava quando le era crollato il mondo addosso. Quel ricordo la fece urlare di dolore. Si scaraventò contro il muro cominciando a prenderlo a pugni e continuò finché i muscoli delle braccia le cedettero. Crollò a terra.

La parete imbrattata, le nocche scorticate, da cui uscivano copiose gocce di sangue, che a terra andavano a mischiarsi con il sale delle sue lacrime. Aveva il respiro pesante e le palpebre serrate con forza. Non voleva pensare a nient'altro, solo al dolore che si irradiava dalle sue mani. Perché il dolore fisico era meglio di quello emotivo.

Passò una settimana a trascinarsi da casa al lavoro, e viceversa. Non aveva toccato cibo dal giorno del funerale, e le sue condizioni di abbandono si stavano facendo così evidenti che anche i suoi colleghi stavano cominciando a preoccuparsene. La invitavano ad uscire, a svagarsi, a bere qualcosa al bar, ma lei rifiutava sempre.

Si sentiva il fantasma della vecchia se stessa. Tutto arrivava alle sue orecchie ovattato, i suoi occhi sembravano non prestare attenzione a nulla. Niente riusciva a scuoterla da quella situazione.

Si chiuse la porta dell'appartamento alle spalle, gettò la borsa e la giacca sul divano, e man mano che si avvicinava al bagno si spogliava, buttando tutto a terra. Aprì l'acqua della doccia e si spostò sotto il getto bollente. Si accasciò sul pavimento e rimase immobile, lasciandosi scorrere addosso quel fiume di lava.

Allungò il braccio verso il ripiano dove erano appoggiati i saponi e afferrò la lametta. Quell'oggetto era diventato il suo compagno inseparabile di quei giorni apatici. Non sapeva nemmeno lei da dove le fosse venuta quell'idea malsana, seppe soltanto che l'avrebbe fatta stare meglio e non ci pensò due volte a metterla in atto.

Fissava le perle scarlatte che cominciavano a formarsi e a colare dalla carne appena incisa. Il suo interno coscia stava cominciando a diventare un campo di battaglia, ma non le importava. Per ogni taglio che si infliggeva le sembrava di tornare a respirare, di uscire dalla sua indifferenza e dalla sua tristezza per immergersi nuovamente nel flusso della vita.

Quel dolore era diventato la sua nuova droga. Ma questa volta non era sicura di riuscire a disintossicarsi.




​Suilejade


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