Quando la morte t'accarezza

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In una domenica mattina soleggiata e senza nuvole di agosto si svolse il freddo presagio della morte. E non solo perché quel presagio se ne stava comodamente appoggiato alla parete della chiesa, ma soprattutto perché stava cercando qualcuno.

E quando la morte cerca qualcuno è impossibile sfuggirle.

La ragazza appoggiata al muro si mise comoda, in attesa di sentire il parroco pronunciare le parole che avrebbero concluso la messa, sentendosi rispondere in coro dai fedeli. Nel giro di qualche minuto un centinaio di persone si riversarono nella piazza antistante la chiesa; in molti si accorsero della ragazza vestita di nero e parecchi si scansavano da lei come se fosse un'appestata, altri la guardavano con curiosità. Il vero motivo per cui si spostavano così in fretta era la paura, che scorreva come acqua fredda giù per la spina dorsale; c'era qualcosa di mortale in quella fanciulla di una bellezza non indifferente, sentivano d'istinto che in lei c'era qualcosa di diverso. L'inquietudine serpeggiò tra i più, mentre alcuni si lasciavano scappare dei sospiri spezzati quando vedevano la sua figura.

Un signore molto anziano le si avvicinò lentamente, spostando pesantemente il bastone davanti a sé e trascinando le gambe con immensa fatica. Una volta fermatosi innanzi a lei, le parole gli uscirono in un sospiro beato: «Sei veramente tu?»

La voce ricca, calda e corposa di lei fece girare molte facce nella loro direzione.

«Oh mio caro Arthur, sono proprio io.» E sorrise. Fu una cosa che lasciò senza fiato coloro che stavano osservando la scena. Il sorriso che si aprì sul suo viso un po' spigoloso ne ammorbidì i tratti, rendendola incantevole. Non pochi si ritrovarono a fissarla a bocca aperta e alcuni addirittura mossero qualche passo verso di lei, come se fossero stati soggiogati dal suo sorriso.

«Sei finalmente venuta qui a prendermi?» Gli occhi azzurri e sbiaditi di Arthur si illuminarono per un momento di pura gioia. Il sorriso di Thanatos si spense lentamente e fissò lo sguardo su di lui, attraverso le lenti degli occhiali da sole.

«No, Arthur. Il tuo momento non è ancora arrivato.» Gli sussurrò dolcemente. Le spalle incurvate dell'anziano signore si abbassarono ancora di più e lo sconforto lo invase.

Una ragazza giovane si precipitò verso di loro, cercando di riprendere fiato. «Nonno, non ti trovavo più. Perché sei...» si fermò di botto, senza più riuscire ad articolare una parola. Fissò la donna che si trovava davanti a lei con stupore e spostò lo sguardo su suo nonno. Il primo pensiero che le venne in mente fu quello di sapere come faceva lui a conoscere una ragazza tanto giovane, se usciva di casa solo la domenica mattina per andare a messa.

Riprendendo il controllo di se stessa riuscì a dire: «Scusi, ma lei chi è?»

La ragazza davanti a lei si tolse lentamente gli occhiali da sole a goccia e li incastrò nella scollatura della canottiera nera e semplice che indossava. Aprì gli occhi di un nero profondo, come se fossero ossidiana, e li puntò sul volto accigliato della giovane.

«Il mio nome è Thanatos, Elizabeth». Sorrise divertita allo sguardo scettico di Elizabeth, che d'altronde non si fidava per niente di quella che era a tutti gli effetti una sconosciuta per lei. Voleva chiedere come faceva a sapere il suo nome, ma Thanatos la anticipò. «Tuo nonno Arthur conversa con me da un po' di tempo ormai e mi ha parlato di te. Suppongo che ormai in famiglia sappiate tutti qual è la situazione.» Thanatos parlò con voce tenera, allungando una mano per accarezzare con gentilezza la guancia di Arthur. Gli occhi di lui si illuminarono come se avesse visto la persona più importante della sua vita e si appoggiò con delicatezza sulla mano di lei.

Se Elizabeth fino a quel momento aveva avuto un atteggiamento scettico nei confronti di quella pazza davanti a lei che si faceva chiamare con il nome greco della morte, dovette ricredersi. Il braccio pallido teso davanti a lei si fece lentamente trasparente, fino a rivelare tutta la struttura ossea; Thanatos era diventata uno scheletro ambulante, i vestiti ancora al loro posto, su una pelle invisibile. Lo sguardo di Elizabeth si spostò sempre più in alto, dalle ossa del braccio, alle clavicole, alle costole e alla colonna vertebrale che si intravedevano in modo grottesco dalla canottiera, fino al cranio; le orbite vuote erano concentrate su di lei, che paralizzata dalla paura, rabbrividì. Avrebbe voluto scappare via urlando in modo selvaggio -perché era sicura che quella non fosse un'allucinazione- fregandosene di quello che la gente avrebbe detto vedendola correre via così, ma non riusciva a muoversi.

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