Capitolo 5

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Dedicato a Vivianlee99

James Donovan, il padre di Samantha, ci accoglie nel suo elegante appartamento. 

Siamo in soggiorno, seduti sui divanetti in pelle bianca. Ci stringiamo la mano. «Nathan, Matthew, quanto tempo. Come va, ragazzi?», chiede James scrutandoci curioso.

I suoi occhi castani sono solcati da occhiaie, alcune rughe gli segnano il viso. Ha un aspetto trasandato, appare invecchiato da come lo ricordo. I suoi occhi esprimono un enorme senso di tristezza, sono spenti, privi di vitalità. 

«Va tutto bene, signor Donovan...», risponde pacato Matthew.
«Prego», ci invita, tendendoci un vassoio con biscotti di pan di zenzero. Ce li offre accompagnati con del tè che versa in due tazze di porcellana. Sorseggio la bevanda calda con calma. 
«Buonissimi i biscotti, grazie», commenta Matthew con un sorriso.
«Va abbastanza bene. Comunque, non siamo qui per parlare dei miei problemi personali, ma per Samantha. Il caso è stato riaperto, l'indagine è in atto. Ho bisogno di farle alcune domande», pronuncio con naturalezza. 

«Capisco», pronuncia iniziando a grattarsi il mento. «Va bene, mi dica», risponde di rimando. 
«Ricorda qualche particolare riguardante la sera della scomparsa di sua figlia? Qualche comportamento anomalo... Era ansiosa? Non ricorda nulla?», domando guardandolo negli occhi.
«No, era serena. Ricordo solo che mi disse che sarebbe uscita con le sue amiche e che sarebbero andate in discoteca. Mi salutò con il suo solito sorriso vivace che mi manca. Mi diede un bacio sulla guancia. Uscì di casa e da quella sera non è più tornata», mormora, stringendo i pugni con le lacrime agli occhi.

«Mi dispiace. Potrei vedere la stanza di sua figlia? Vorrei ispezionarla. Chissà, potremmo trovare qualche indizio tra i suoi oggetti personali», pronuncio, guardando prima James, poi mio fratello che è lì seduto alla mia destra, non ha proferito parola per tutto questo tempo e, a pensarci bene, mi mette un po' a disagio.

Perché se ne sta lì a fissarmi e a limitarsi a guardarmi piuttosto che commentare sulle mie decisioni? Non capisco.

«Seguitemi, vi mostro la sua stanza», enuncia l'uomo, cordiale.
Matthew mi guarda, sorride e subito dopo mi raggiunge.
Seguiamo il padre di Samantha, che ci conduce davanti a una porta con una targhetta con scritto il nome di sua figlia.
Appena entriamo subito percepisco una sensazione di malinconia. Sono nella stanza di Samantha, la ragazza che ho amato durante la mia adolescenza.
Mi provoca uno strano effetto essere qui in questo momento.
La stanza è ampia e moderna, un letto matrimoniale a cassettone color panna è vicino alla finestra. A destra e a sinistra di esso dei comodini abbinati sui quali vi sono gli Abat-juor. Mi guardo intorno e vicino alla parete di fronte al letto, c'è l'armadio ad ante e una libreria quasi tutta colma di libri. La scrivania con il PC, un televisore a led di ventotto pollici è nell'angolo su un ripiano.

Vedo mio fratello che sta conversando con James. «Il PC di sua figlia nelle indagini precedenti venne controllato?»
«Sì, il vostro collega, Ramon, lo portò con sé. Ci venne restituito perché non c'era nulla di sospetto. Ricordo che trovarono un diario e non notando nulla di sospetto ce lo consegnò.»
Improvvisamente il suono del citofono interrompe la conversazione. «Scusate un attimo», dice l'uomo per poi allontanarsi lasciandoci soli.
«Bene, adesso è il momento per ispezionare meglio la stanza e i suoi oggetti personali», affermo convinto.
Matthew munito di guanti in lattice, inizia a curiosare nella libreria. Fra i libri niente di strano, tutto regolare.

Ispezionando la scrivania, noto i portafoto con gli scatti di famiglia.
La mia attenzione viene attirata da una foto in particolare: siamo noi due, Samantha e io, vicini e sorridiamo spontanei. Rimango completamente sorpreso; ricordo quando venne scattata un anno prima del suo trasferimento, e non posso impedire ai miei occhi di umidirsi.
Torno indietro con la mente a quel giorno, eravamo spensierati, sorridevamo. 
Mi abbracciava teneramente e in modo scherzoso scattammo un selfie dopo una gita al mare in un weekend fuori città.
Più osservo quella foto, più i ricordi mi tornano alla mente, veloci, imprevedibili.
Ricordi che avevo smarrito dopo l'incidente, ma che adesso, puntualmente, tornano a galla nella mia memoria.
«Nathan, hai trovato qualche indizio?», la voce di mio fratello mi riporta alla realtà.
«No, solo questa...», dico indicandogliela, scuotendo il capo con rammarico.
«Eravate così carini insieme», commenta osservando la foto.
Già... Lo eravamo, quanto mi manca la sua voce, il suo modo di chiamarmi Nat.

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