2. Routine

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Routine.
Andandomene da casa dei miei genitori definitivamente, mi creai una mia routine quanto più possibile normale.
Più che per me, che potevo tranquillamente vivere in un mondo sregolato come avevo fatto qualche anno prima, mi ero creata una routine per Colin, in modo che potesse vivere in maniera "normale".

Era semplice, in fin dei conti: la mattina mi alzavo e preparavo la colazione e il pranzo per il diavoletto, poi lo svegliavo e lasciavo che si preparasse (riusciva a gestirsi bene, grazie anche all'aiuto che gli aveva dato mio padre fin da piccolo, come un vero gentiluomo) mentre io filavo a prepararmi.
Successivamente si passava all'impegno "scuola", dove lo accompagnavo fino all'ingresso e osservavo bene mentre si univa insieme agli amichetti e alle insegnanti che controllavano gli ingressi.
Ancora dopo questo, c'era l'impegno "lavoro", dove lavoravo fino alle tre del pomeriggio, infine andavo a recuperarlo e si tornava a casa o si faceva una capatina al parco. In barba a ciò che si ostinava a ordinare mia madre, ritenendo il parco giochi o i giardini pubblici un luogo, testuali parole, «inadatti e lerci per mio nipote».
Infine spesa, se si doveva fare, casa a fare i compiti e a cenare.

Non era il massimo, ma recuperavo il tempo con lui il fine settimana, quando avevo i turni serali all'Heavens.
Passavo il venerdì pomeriggio dopo scuola e tutto sabato e domenica con lui, a giocare, a portarlo in giro e a farlo divertire. O a ospitare i suoi amici di scuola.
Mentre la sera intorno alle otto, quando arrivava la tata, lui passava nelle sue mani.

Forse potrebbe risultare troppo "movimentato" e "sbagliato" (quest'ultimo secondo i canoni di quella che mi ha messa al mondo), ma preferivo così. E poi lui non era privato di niente, non andava ai dopo-scuola, lo aiutavo io stessa coi compiti se c'era bisogno. E lo portavo io alle partite di basket quando c'erano.
Ho sempre fatto di tutto per stare con lui e far sì che fossi presente in ogni momento della sua vita e rimediare inevitabilmente agli errori commessi dai miei stessi genitori.

L'unico contatto che ho mantenuto con la mia famiglia, escludendo mio fratello, è stato con mio padre.
Uomo di una gentilezza e di una classe fuori dal comune, probabilmente sarebbe stato bene alla corte della regina Vittoria e del principe Albert.
Si rifiutava di mandare sua figlia e suo nipote lontano da casa, spesso ci eravamo urlati addosso e alla fine per renderlo felice (e calmare i miei poveri nervi), gli concessi di prendermi un appartamento in centro Londra e l'auto.
Questo era un patto: lui si occupava di procurarmi una casa e l'auto, io di occuparmi di Colin e di pagare le bollette.
Non avevo ottenuto una totale indipendenza, ma era meglio così, mio padre era tranquillo e Colin era felice di vivere in una casa che ricordava quella dei nonni (questo particolare era dato sopratutto dall'enorme mappamondo in legno che era presente nella sua cameretta e che era mio prima che fosse passato a Lui, regalatomi appunto da mio padre per i miei dodici anni).

La routine, riguardava anche i ragazzi che avevo.
Non influivano nella mia routine.
Non entravano MAI in casa mia.
Non entravano MAI in contatto con Colin.
Ma col passare degli anni, che comunque da diciassette a ventitré il "salto" lo senti, mi sono resa conto che non ero portata per avere una relazione, non in quel momento e non a quella età.
Questo perché non avevo voglia di impegnarmi, perché appunto richiedeva troppo impegno e io il mio tempo lo dovevo impegnare per altro. E questo avrebbe inoltre comportato un cambio radicale della routine mia e di Colin e mi rifiutavo di prepararlo a tale scombussolamento.
Il tempo per le relazioni sarebbe venuto più avanti, magari tra cinque o sei anni, quando lui iniziava a essere più indipendente.

(Sull'ultima frase avrei da ridire, visto che sono riuscita a inguaiarmi proprio in una relazione. Avessi potuto mi sarei spaccata la fronte al muro. Ma questo verrà più avanti... forse)

OMNIA FERT AETAS || Tom Hiddleston || SOSPESADove le storie prendono vita. Scoprilo ora