Capitolo sedici

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JANE

Tornammo verso casa. Chester era desolata, si era spenta insieme al sole che diverse ore fa tramontava stanco. Eravamo davvero felici, di quella felicità senza fine, senza inizio.
Avevo presentato Brenton a mia zia; all'inizio era stato un po' imbarazzante ma la parlantina di quella donna era capace di mettere a proprio agio chiunque. Lui sorrideva, scherzava, avevo conosciuto quella sua parte d'ironia che spesso teneva per sé: sbagliava perché era capace di far ridere l'intera sala del pub.
Ridemmo fino allo sfinimento, i sorrisi incastrati in gola, i polmoni leggeri, gli occhi trasognati. Ogni tanto ci guardavamo per sbaglio o perché semplicemente succedeva. Poggiava la mano fredda sulla mia coscia e mi stringeva lievemente. Lui c'era, continuava ad essere lì, proprio lì al mio fianco. Tutto poteva scomparire, andarsene. Mi bastava ciò che avevo in quegli attimi interminabili di spensieratezza.
Bren mi stava accompagnando a casa, la strada era ancora bagnata perché fuori aveva piovuto. C'era silenzio, come se quella cittadina avesse smesso di battere, come se il tempo si fosse fermato a guardarci e riprendere fiato.
Eravamo abbracciati, lui mi stringeva forte; una presa salda, presente. Sorridevo senza curarmene, ogni tanto mi voltavo e lo guardavo con il timore di dimenticarmi di quella fossetta, di quella smorfia di allegria, di quegli occhi un po' corrucciati e sempre un pochino pensierosi.
Saltellavo come una bambina e lui mi prendeva in giro. Mi sollevava un po' da terra per permettermi di saltare leggermente più in alto e poi mi lasciava con cautela, come se fossi una campana di vetro pronta a sgretolarsi e rompersi nel suo palmo freddo.
Lo strinsi per mano, la sua pelle era chiara, le vene in superficie, le dita grandi. Sembravo piccola piccola al suo fianco.
«Cosa vuoi, toccare il cielo per caso?» si prendeva gioco di me mentre mi sollevava un poco dalla vita. Senza vergogna, ammettevo di sentirmi una principessa. Era una sensazione strana ma, in quella solitudine, in quel silenzio, in quel luogo che stava dormendo, noi sembravamo due girasoli che non si erano chiusi al calar del sole.
Splendevamo di luce nostra.
«Non sarebbe male prendere anche qualche stella.» ammisi, portando un ciuffo dietro l'orecchio. Ti fermasti nel bel mezzo della strada, guardandomi. Ti soffermasti sui miei occhi, sul mio viso, e mi sembrava di nuovo d'esser nel tuo negozio a posare per te. Mi analizzavi prendendoti tutto il tempo possibile, non ti chiedevi se la cosa m'imbarazzasse... ma d'altronde mi ripetevi sempre che con te non dovevo avere vergogna: semplicemente essere me stessa. Mi veniva facile con te, ispiravi spontaneità.
«Perché no, lo farei se fosse possibile.» abbassasti lo sguardo e ricominciasti a camminare. La tua espressione sul viso era seria e avevo capito che tu l'avresti fatto veramente. Non stavi al gioco, prendevi tutto per reale. Mi assecondavi in quelle che reputavo sciocchezze, davi peso e significato ad ogni mia parola facendomi sentire speciale. Non era una fiaba la nostra, era la vita vera. Non avevo mai conosciuto una realtà bella come quella.
Che ci fosse una fine come in tutte le cose? Per me era inconcepibile in quel istante.
Scossi la testa e ti raggiunsi. Ero rimasta ferma sul marciapiede, ancora scossa per quelle parole. Era stato qualcosa di potente, viscerale, nato da un'istinto che partiva da dentro.
Mi avevi colpita, il proiettile stava andando in profondità e non accennava a fermarsi. La ferita, a lungo andare, sarebbe stata grave.
Dopo esserci salutati io attesi prima di entrare nel portone, aspettai che lui svoltasse l'angolo. Lo richiamai a gran voce ed era buffa la situazione perché solo noi sembravamo far rumore. Si girò, lo salutai con la mano ancora e ancora e lo vidi serrare la mascella come se gli dispiacesse doversi voltare e non guardarmi più. Gli avevo chiesto se avesse voglia di salire su da me, ma l'indomani doveva svegliarsi presto e non saremmo riusciti ad andare al bar visto che sapevo avrei dormito un bel po'.
Mi sorrise lievemente e riprese quella sua camminata solitaria, trascinandosi dietro gli anfibi, nascondendosi nel buio della notte con quel suo cappellino calato sulla testa.
Ed era una sensazione strana quella che mi attraversò.
Mi chiesi cosa ne sarebbe stato di noi.
Cosa ne sarebbe rimasto di quei momenti trascorsi ad amarci senza controllare lo scorrere del tempo. Quel tempo che ci permetteva di avvicinarci, lo stesso che avrebbe sfruttato quei punti deboli per piegarci, per svestirci fino al dolore, alle fragilità più nascoste. Ci stavamo facendo del male, lo sentii un peso sul petto, in quell'angolo sulla sinistra che ogni giorno che passava si riempiva d'amore.

🌻

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