Il sole nero

12 2 0
                                    

 Un buco.
Un baratro oscuro e profondo si stava allargando al centro del petto di Lion, proprio dove batteva il cuore. Cadde in ginocchio, come se qualcuno gli avesse passato sulle spalle un macigno enorme, troppo pesante per poter essere sostenuto da un uomo solo.
Lacrime amare rigavano il suo viso, bagnando le sue labbra, secche a furia di urlare. Le sue mani cercavano disperatamente un appiglio su cui scaricare la tensione che le muoveva, annaspando tra la cenere umida del pavimento nero e i pezzi di vetro insanguinati.
Il suo sguardo corse al blocco di ghiaccio davanti a lui, troppo spesso per essere infranto, troppo freddo per poterlo solo toccare. Le loro armi semidivine non funzionavano, così come il rudimentale fuoco che avevano provato ad accendere con vari pezzi di legno della cucina distrutta.
Aveva perso tutto, in un colpo solo.
Il volto di Alec era stato fermato in una smorfia di confusione, colto esattamente nel momento in cui Wolf gli aveva sfiorato le labbra, suggellando il loro futuro destino con un bacio.
"E con un bacio, io muoio."
Non sapeva perché, ma la voce di un disperato Romeo gli risuonò nelle orecchie, rispecchiando la situazione in cui si era ritrovato anche il figlio di Chione. Lion aprì e chiuse la mano destra più volte, costringendola ad obbedire alla sua volontà, cercando di ignorare la consapevolezza che fosse tutta colpa sua.
Qualcuno si agitò alle sue spalle, dandogli una mano ad alzarsi.
Il volto di Caelie era cereo e confuso, la luminosità del suo sguardo smorzata dalla tristezza. I contorni degli altri semidei gli apparivano confusi, anche, e soprattutto, per via delle lacrime che affollavano i suoi occhi: non piangeva mai in pubblico, era stato addestrato ad andare avanti, a considerare la morte come una compagna di vita, visti i pericoli di tutti i giorni a cui i semidei andavano incontro.
Eppure non riusciva a trattenersi, a non sentire il groppo che gli era rimasto incastrato in gola.
Sentiva i propri punti di riferimento interiori venire meno, la mappa dei suoi sentimenti essere sconvolta da un'ondata troppo forte di dolore, una marea incontrastabile che costringeva tutte le cellule del suo corpo a remare contro la sua volontà.
Fu come se gli stessero sfilando la terra da sotto i piedi, lasciandolo cadere, per nove giorni e nove notti, verso il punto più buio del Tartaro.
Castiel, il volto sconvolto nel cercare di reprimere le lacrime, gli si avvicinò, poggiandogli una mano sulla spalla. Lion ricambiò il suo sguardo compassionevole con una sorta di sorriso storto, tirando su col naso. Non sentiva altro che ombre, nel suo cuore, agitarsi per prendere il controllo della sua vita.
Era davvero questo il dolore?
Lion aveva sperimentato quello per una ferita di guerra, quello di un cuore infranto, ma mai nessuno aveva fatto male come questo, un leone oscuro che gli artigliava il ventre, costringendolo a guardare impotente, senza che potesse fare nulla per fermare la sua furia omicida.
Incrociò lo sguardo di Zheng, il quale si era piegato vicino al blocco di ghiaccio mormorando qualcosa, forse un incantesimo, senza successo. Aveva scrollato le spalle, come a mandare via la tristezza che aveva colto tutti i semidei presenti nella stanza.
Il dolore che regnava in quella cucina era più tossico di una boccata di acido cloridrico.
Alexis lo costrinse ad alzarsi, facendogli mettere il suo braccio intorno al collo. Lo scortò nella sala accanto, proprio mentre gli occhi di Wolf sembravano mandare un guizzo di vita, un ultimo barlume di luce prima dell'oscurità più totale.
Un buco, un buco stava consumando il petto di Lion.
« Ci fermeremo qui, per la notte. » annunciò Cassie, prendendo il comando, « E che nessuno oltrepassi questa porta. » ordinò, sprangando la soglia che dava sulla cucina, dove il blocco di ghiaccio risplendeva nel buio, accarezzato dalla luce morbida della luna.
Alexis lo fece sedere su un piccolo divano, medicando al meglio le sue ferite: prima quella sulla schiena, poi quella sulla spalla, massaggiandole con una sostanza che gli pizzicava la pelle. Non gli importava, visto che continuava a guardare senza sosta la porta chiusa nel luogo della loro ultima battaglia.
« Dei. » sussurrò la figlia di Ade, contraendo la mascella alla vista del suo polso tagliato, dove il sangue, incrostandosi, aveva formato una linea spezzata, identica a quelle che si vedono sui monitor degli ospedali. Lion imbastì un sorriso, spezzato come il suo cuore, pensando a come il suo sangue stesse scrivendo le sue stesse cronache di vita e di morte.
La ferita doveva essere piuttosto brutta, visto che Alexis faticò non poco per cercare di non farlo morire dissanguato, le rughe intessute dalla concentrazione che correvano sulla sua fronte.
« Usa questi. » le disse la voce di Serena, porgendole qualcosa di molto simile ad ago e filo. La figlia di Ade la guardò, sospettosa e confusa, poi prese ciò che la figlia di Afrodite le stava offrendo senza fare tante storie e si rimise all'opera, impugnando l'ago come una spada. Lion guaì di dolore, mentre Alexis imprecava in greco antico, ricominciando, poi, a cucire la ferita.
Cercò di ignorare il dolore, ma era come se qualcuno gli stesse chiedendo di staccargli la mano senza che opponesse resistenza. Mosse le dita, costringendole ad obbedire, artigliando il braccio della poltrona con fare aggressivo.
Sottili rivoli di sudore bagnarono le sue tempie, arrivando fino alle guance scorticate. Dopo quelle che sembrarono ore, Alexis fermò la sua mano, lasciando che Lion potesse osservare il suo polso: i contorni della ferita erano violacei e il sangue continuava a scorrere, ma i due lembi di pelle erano stati attaccati l'uno all'altro con del filo rosso, sufficientemente resistente per permettere alla ferita di guarire e rimarginarsi.
« Quello che hai fatto ... è stato davvero grande. » sussurrò Zheng, alludendo a come Lion non avesse avuto paura di tagliarsi le vene per salvare Alec dalla morte, « Dovresti andarne fiero. »
Lion non aveva la forza di rispondere, era emotivamente e fisicamente distrutto. Calò il silenzio, mentre Alexis gli avvolgeva il polso nelle bende e gli altri si disponevano alla meglio nella stanza, tirando fuori dagli zaini dei sottili materassini di gommapiuma da mettere a terra.
Gli lasciarono la poltrona, magari immaginando che se la fosse meritata, quando lui si sentiva più un reietto che altro. Osservò gli altri semidei cadere vittime del sonno di Morfeo, Caelie addormentarsi su di un fianco vicino a Cassie, la figlia di Zeus. Castiel abbracciava una sorta di cuscino ricavato dalle tende strappate del salotto, mentre Zheng si addormentava, preda di un sonno leggero come quello di un cerbiatto.
C'era solo la luce della luna ad illuminare la stanza, una morbida e delicata coperta che impediva all'oscurità di inghiottirli tutti. Il sonno, seppur Lion ne sentisse il bisogno, stentava ad arrivare, lasciandolo lì, accompagnato solo dal monotono russare leggero di Castiel. Non aveva nessun trucco per addormentarsi, nessuna pecorella, nessun mostro da contare.
Chiuse gli occhi, entrando in una spirale di dolore e di rabbia.


Era in un vicolo stretto.
Un gatto randagio stava frugando nella spazzatura messa alla rinfusa in un bidone, affondando il muso in un sacco di plastica nero. La puzza acre dell'immondizia non lo faceva quasi respirare, costrigendolo ad aspirare quanta più aria possibile con la bocca e a non respirare con il naso.
Anche se era Giugno inoltrato, c'era una leggera nebbia che saliva dal terreno e lambiva le sue gambe, come onde del mare. La luce del vicolo sfarfallava, illuminando parzialmente il suo volto confuso: dove si trovava?
Non c'era nessun passante per la strada, dove regnava il silenzio più assoluto, interrotto solo dai miagolii insoddisfatti del gatto randagio dietro di lui.
Quel luogo gli stava mettendo i brividi.
Mosse qualche passo, contornato dalla Foschia, cominciando ad intravedere le figure di due ragazzi sul limitare del vicolo, in una posizione sufficientemente buona per scappare, in caso di pericolo. Per quello che riuscì a vedere, il ragazzo alla sua destra aveva dei corti capelli biondi e due occhi azzurri, resi più scuri dall'oscurità che li avvolgeva. Aveva un fisico snello, dei tratti dolci, tutto il contrario del ragazzo che stava appoggiato alla parete di mattoni, i capelli mogano scompigliati, gli occhi carismatici e ingannatori.
Si avvicinò, allungando l'orecchio per ascoltare cosa si stavano dicendo. Il biondo porse al tatuato un rotolo di banconote, guardandosi attorno con fare sospetto, come se avesse qualcosa da nascondere.
Che si trattasse di due spacciatori di droga?
« Questi sono tutti quelli che ho trovato. » gli assicurò il ragazzo biondo, « Passerò a prendere l'altra roba entro domani mattina, Hic. »
Il ragazzo moro si accese una sigaretta.
« Lo spero per te, Olsen. » affermò, fumando disinvolto, « Fammi un casino come l'altra volta e giuro che ti ammazzo con le mie stesse mani. »
Lion si avvicinò ancora, quasi inciampando sul gatto randagio che cercò di graffiarlo, anche se non ebbe successo, visto che lui era incorporeo. Il ragazzo che doveva chiamarsi Olsen, e quel fantomatico Jack, si voltarono a guardare nella sua direzione, scostando subito dopo lo sguardo per ricominciare a parlare.
Si salutarono velocemente e Lion ebbe solo il tempo di vedere Hic buttare a terra la sigaretta e spegnerla sotto la suola delle sue scarpe.
Poi entrambi si incamminarono in due direzioni separate.
Aveva poco tempo prima che perdesse uno dei due, così svoltò a destra e cominciò a seguire Olsen, o come diavolo doveva chiamarsi lui. File di lampioni si susseguivano sul marciapiede crepato dalla pioggia e dalla neve, mentre edifici fatiscenti e abbandonati gli facevano capire che doveva trovarsi in un quartiere periferico di qualche città.
Il ragazzo biondo, seppur magro come un fuscello, era veloce.
Girò più volte agli angoli, le mani infilate nelle tasche del giubbino leggero, guardandosi intorno con fare circospetto, come aspettandosi un attacco da un momento all'altro. Si infilò velocemente in una casa bassa e annerita dal tempo, che mostrava, come insegna, solo cinque lettere, sopravvissute nel corso degli anni.
BESTY.
Lion lo seguì, passando attraverso la porta di legno come un fantasma. Era quasi convinto di averlo perso, quando notò il biondo dei suoi capelli muoversi sulle scale alla sua sinistra, salendo al piano superiore.
« Federica. » sussurrò, la voce molto più dolce, rispetto a come l'aveva sentita prima, « Sono qui, sono tornato. »
Federica? E chi era, adesso, questa Federica?
Salì frettolosamente le scale, trovandosi di fronte a due ragazzi che si baciavano, travolti dalla forza dell'amore: lui teneva il viso di lei con fare delicato, mentre le mani della ragazza scompigliavano i capelli di Olsen. Lei era visibilmente commossa, aveva quasi le lacrime agli occhi, i capelli scuri, che originariamente erano stati raccolti in una treccia, adesso erano disordinati e caotici.
« Charlie, credevo di non vederti più. »
BOOM!
Improvvisamente, qualcosa lo afferrò per lo stomaco e, mentre i due cominciavano a parlare, venne catapultato fuori dalla finestra alla velocità di una supernova. Urlò e chiuse gli occhi quando si ritrovò la faccia ad un centimetro dall'asfalto freddo della notte.
Poi il buio.
Cercò di aprire gli occhi, ma si accorse che qualcosa glielo impediva, come se fossero stati cuciti. Ci provò ancora, sforzandosi con tutte le sue forze, ma non successe nulla.
Forse non avrebbe dovuto vedere quello che aveva davanti.
Adesso era a piedi nudi, camminando senza meta e cieco su un pavimento freddo e liscio. Poi qualcosa afferrò la sua gamba e lui cadde a terra, sbattendo il mento contro la superficie dura su cui aveva camminato.
Il sapore del sangue inondò la sua bocca.
Si sentì tirare in più punti del suo corpo, sulle gambe, sulle braccia, alla base del collo, come se qualcuno avesse cucito dei fili alla sua pelle, rendendolo una marionetta.
Urlò.
Non aveva più il controllo del suo corpo, la sua volontà non riusciva a muovere nemmeno un muscolo delle dita della mano. Il suo cuore continuava a battere all'impazzata, mosso paura e dolore, mentre il suo petto veniva gonfiato da rabbia e amarezza. Pianse, lacrime amare che continuavano a solcare il suo viso, scavandolo in profondità come se fosse roccia.
Lasciando segni come se fossero acido.
Qualcuno tirò i fili e lui mosse le gambe, buttando i piedi uno davanti all'altro scoordinatamente, mentre il suo collo si piegava in maniera innaturale e rimaneva fermo, storto come la curva di un ponte. Urlò, urlò ancora di dolore, quando poi si accorse che dalla sua bocca non uscivano altro che sbuffi patetici di aria.
La lingua gli si attaccò al palato, le dita le una alle altre, mentre tutte le ossa del suo corpo si spezzavano all'unisono e lo lasciavano cadere a terra, sostenuto solo dai fili sottili del suo burattinaio.
Perché gli stavano facendo questo?
Sentì la sua pelle bruciare come se fosse su di un fuoco, i suoi piedi poggiare su una lastra rovente, alimentata dalle fiamme stesse dell'inferno.
Era lì, impotente, mentre qualcuno si prendeva gioco di lui e lo rendeva vulnerabile, così vulnerabile come Lion non si era mai sentito. Voci presero a sussurrare nella sua testa, biforcute come la lingua di un serpente.
"Debole." dicevano, "Indifeso."
Era finito nel suo inferno personale? Lion credeva di si.
Il burattinaio si mosse e, con lui, si mossero i fili: il figlio di Plutone si portò le mani al volto, graffiandolo, mentre le sue dita armeggiavano ferocemente vicino agli occhi, procurandogli un dolore indescrivibile.
Era muto, non poteva urlare.
I suoi occhi finalmente si aprirono e Lion ebbe l'impressione che il suo cuore si stesse fermando, colto dall'orrore che aveva davanti. Inciampò su un corpo, cadendo a terra proprio accanto al volto senza vita di Alexis, le palpebre spalancate su un cielo di piombo, una spada, la sua spada, conficcata nel petto.
Si ritrasse, disgustato, sbattendo contro uno Zheng malconcio, la testa fracassata su una pietra. Urlò e stavolta il suo corpo collaborò, dandogli manforte.
Chiuse gli occhi, cercò di non vedere, ma era come se qualcuno lo stesse costringendo a farlo.
Morti, tutti morti.
Si lasciò cadere a terra, su un quadrato della mostruosa scacchiera dove si trovava, fuochi e incendi che scoppiavano ovunque, sangue e orrore che impregnavano quel luogo come melassa. Una mano lo toccò sulla spalla, facendolo voltare e guardare l'ultimo brandello di umanità che abbandonava Cassie, prima che si trasformasse in un mostro, il pelo marrone che inghiottiva le sue braccia, la pelliccia ispida che faceva scomparire il suo volto.
Alzò lo sguardo sopra di lui, non trovando altro che ombre e i fili che muovevano il suo corpo, nudo come il animo tormentato.
Qualcosa lo abbatté a terra, perforandogli il petto con la forza di un martello pneumatico e strappandogli via una parte di sé e facendolo tossire per il dolore, sputando grumi di sangue sui palmi della mani.
Caelie era lì, il volto deformato in una maschera di orrore, delle corna caprine sulla sua testa, il cuore di Lion ancora battente in mano.
Un macabro trofeo d'amore.
Poi parlò e la sua voce era un'accozzaglia di suoni gutturali e aspri, uno sciame di vespe che parlavano all'unisono.
« Questo succederà se continuerai a combattere, Lion Davis. » disse, rivoltando la testa all'indietro e mostrando l'inquietante bianco dei suoi occhi, « I tuoi amici moriranno, tu stesso perirai. »
Caelie gli rivolse i suoi occhi senza alcuna espressione.
« Tu sei solo un piccolo burattino nelle mie mani, mezzosangue. »
Poi strinse il cuore e Lion cominciò ad andare a fuoco, accasciandosi a terra senza più nemmeno un osso intero. I suoi polmoni cercarono disperatamente di inalare aria, aspirando solo sangue.
« Sei mio, Lion. »
E suggellò la sua morte con un bacio.




Si svegliò con la sensazione di andare a fuoco.
Strabuzzò gli occhi, calmando il ritmo dei suoi polmoni affannati e mantenendosi il petto con le mani. Si tastò la maglietta in maniera poco ortodossa, sullo sterno, come a cercare il punto in cui Caelie aveva infilato la mano e aveva strappato via il suo cuore.
Una fitta di dolore lo colpì al polso, dove Alexis aveva faticato tanto per cercare di medicarlo e dove adesso riprendeva a scorrere un sottile rivolo di sangue.
Silenzio.
Gli altri stavano dormendo per terra, sdraiati sui loro sacchi a pelo, immersi nel mondo dei sogni, migliori dei suoi incubi, si sperava.
Il salotto era identico a come lo aveva lasciato: la poltroncina dove sedeva, un pianoforte a corda in un angolo, un piccolo caminetto e un tappeto persiano a coprire il pavimento. Era stato lì, qualche volta, prima della distruzione del Campo Giove, e doveva dire che Alec si dava davvero da fare per mantenere la casa in ordine.
Una nota di tristezza contagiò le sue cellule.
Era davvero quello il suo inferno personale, dove sarebbe finito se fosse morto nel cercare di compiere la missione? Rabbrividì, pensando a come tutti i suoi amici fossero stati uccisi, alla testa fracassata di Zheng, alla spada nel petto di Alexis, sua sorella.
Ma la cosa più inquietante era stata sicuramente Caelie, il bianco dei suoi occhi che non lasciava la sua testa, come se vi fossero stati impressi a fuoco.
Lo aveva baciato.
Era un incubo, si, ma chi si sarebbe preso la briga di terrorizzarlo a morte e poi baciarlo mentre moriva? Caelie poteva anche essere un tantino ambigua, ma non sarebbe mai arrivata a tanto.
E allora chi poteva esserci dietro quel sogno?
Si strinse nelle spalle, provando un moto di freddo improvviso e sentendo i brividi correre lungo la sua schiena, come se delle dita scheletriche la stessero accarezzando.
- Lion. -
Scosse la testa, massaggiandosi gli occhi con le dita in maniera un po' rude, cercando di tornare a dormire, anche se non ci sarebbe riuscito: il suo cervello iperattivo da semidio non glielo permetteva.
- Lion, vieni da me. -
Stavolta era sicuro di averlo sentito, non era stata la sua immaginazione. Si alzò in piedi, brandendo il suo forcone in maniera minacciosa e avvicinandosi alla porta sprangata, scivolando sopra i corpi addormentati dei suoi amici. Aveva paura di aprire quella soglia, aveva paura di ciò che poteva rivelargli.
- Andiamo, Lion. - disse la voce - Non ho molto tempo. -
La porta reagì meccanicamente al suo potere dei metalli, mentre la serratura scattava senza che Lion l'avesse neppure toccata. Scricchiolò, così come il pavimento, rendendo ancora più sinistra l'atmosfera di quella casa, cominciandola a reputare stregata.
Impugnò più saldamente il forcone, proprio mentre la porta si apriva, rivelando la figura di una donna alta, avvolta in vesti nere come la notte, contornata da sottili rivoli di ombre che accarezzavano la sua pelle cadaverica.
« Calma, mio giovane eroe. » lo rassicurò, alzando le mani e imbastendo un sorriso fugace, « Non sono qui per farti del male. »
Lion alzò il mento, continuando a tenerle puntato contro il forcone e analizzando il suo corpo. Portava una veste nera unica che le arrivava fino ai piedi, nudi e macchiati di sangue. Aveva una pelle sottile, che rivelava il reticolo di vene sotto di essa, due occhi che avrebbero potuto essere caldi ed accoglienti e che, invece, sembravano più quelli di un demone in cerca della sua vittima. Le sue labbra erano secche e sporche di sangue, come se ne avesse appena bevuto un sorso, i suoi capelli bianchi come neve e, su di essi, una corona fatta di ossa. In una mano stringeva un frutto rotondeggiante, rosso come le sue labbra.
« Non mi hai riconosciuto? » domandò, alludendo a ciò che aveva in mano, « Che sbadata! In questa stagione dovrei essere molto più ... allegra, ecco. »
Fece uno sforzo di volontà notevole e la corona sulla sua testa si trasformò in una ghirlanda di fiori, il suo vestito si colorò di rose e tulipani, mentre la sua pelle si faceva più scura, come se avesse passato buona parte del suo tempo sotto il sole.
Lion abbassò l'arma.
« Proserpina, mia signora. »
La dea annuì, soddisfatta, tornando al suo aspetto cadaverico. « Si, caro ragazzo. » disse, sorridendo in maniera inquietante, « Dobbiamo parlare. »
Solo allora Lion notò che il frutto che stringeva in mano era una melagrana, piena di chicchi rossi come sangue che avevano macchiato, con il loro succo, lo strato superficiale del ghiaccio che ricopriva Alec e Wolf.
« Una vera tragedia, vero? » chiese, retoricamente, girandovi intorno e raggiungendo Lion.
« Non può fare nulla per ... beh, insomma, lei è una dea. » domandò il figlio di Plutone, infilandosi il vistoso anello al dito e guardando con aria interrogativa Proserpina, lo sguardo speranzoso come quello di un bambino davanti ad una vetrina piena di caramelle.
Il suo cuore batté forte, smorzato poi dalla risposta lapidaria della regina degli Inferi.
« No, purtoppo. » rispose, il tono triste ed enigmatico, « La vita è una cosa fragile. Se le Moire hanno deciso così, non ci resta che far dormire loro il sonno che si sono meritati. »
Fu come se gli avessero dato un pugno in pieno stomaco.
« So ... sonno? » domandò, « Sta scherzando? Io li riporterò indietro! »
La dea non rispose, ma spiluccò un chicco di melagrana e se lo cacciò in bocca, gustandone il sapore acidulo. Lo offrì anche al figlio di Plutone, il quale rifiutò saggiamente.
« Perché è qui? » le chiese, notando l'aria intontita della dea, i suoi piedi nudi che carezzavano le schegge di vetro per terra, « Soprattutto perché in queste vesti, poi. È estate, dovrebbe essere molto più ... allegra. » disse Lion, riprendendo la battuta della sua matrigna.
La dea imbastì un sorriso, storto come la corona che brillava sulla sua testa, le ossa che luccicavano come diamanti, sicuramente un regalo di suo padre alla sua sposa.
« Sta succedendo qualcosa di brutto, qui sotto. » spiegò, indicando il pavimento e, per estensione, gli Inferi sotto di loro, « Tuo padre sta combattendo una guerra contro qualcosa che è perfino più grande di lui. E serve tutto il potere disponibile per vincerla. »
« E allora ripeto, perché è qui? »
« Per metterti in guardia, Lion Davis. » sussurrò, parlando ad una sorta di amante immaginario, « So di coloro che ti hanno contattato, stanotte. So dell'incubo che hai fatto, ma fidati di me, della tua matrigna. »
Si avvicinò di più a lui, rivelando i suoi occhi demoniaci e i suoi denti da scheletro, facendo scricchiolare il pavimento sotto di loro come se stesse camminando su un sentiero fatto di ossa.
« Non devi avere paura. » disse, « Solo tu puoi scrivere il tuo destino, mezzosangue. Non devi farti spaventare da loro. Cercheranno sempre di metterti i bastoni tra le ruote, ma non devi farti fermare. Mai. »
Il cuore di Lion sembrò fermarsi, rapito da una mano invisibile che gli impediva di battere.
« Soprattutto adesso che devi incontrare Didone. »
« Perché é così importante? » chiese, avendo bisogno di risposte a tutte le domande che affollavano la sua testa, « Perché proprio la donna che giurò odio a Roma? Ai suoi dei? »
Proserpina scosse la testa, facendo ciondolare i suoi capelli bianchi.
« Ha visto cosa che non doveva vedere e si è rifugiata qui sulla terra, a New Orleans. » rispose, mentre il terreno rombava sotto di loro, « Devo andare. Tuo padre ha bisogno del mio aiuto. »
Lo prese per le spalle e una zaffata di zolfo otturò le sue narici, prima che il figlio di Plutone potesse porre qualche altra domanda.
« Ascoltami bene, Lion. » disse, ferma, « Quando sarai davanti a Didone, offrile qualcosa a cui non potrà rinunciare. Una cosa che cerca da ben duemila anni e che non ha mai trovato. E dovrai darglielo, anche se questo richiederà un sacrificio. »
Qualcosa di piccolo e duro comparve nella sua mano destra. Glielo porse e Lion la osservò, scettico.
« Una statuina? » chiese, confuso, « Non capisco. »
« Ti servirà per dare a Didone ciò che vuole. » rispose fugace lei, prima di scomparire, « Buona fortuna, Lion. Spero davvero di rivederti, un giorno. »
Silenzio.
Lion era di nuovo solo con sé stesso, anzi, adesso aveva una statuina come compagnia: la osservò meglio, notando che era una sorta di bambino, i lineamenti sulla pietra appena sbozzati, ma che lasciavano intravedere lo stesso la sua figura.
Si chiese cosa Proserpina avesse voluto dire.
Rimase lì, accanto al blocco di ghiaccio, mentre le parole della dea risuonavano nella sua testa, perforando le sue orecchie come lame incandescenti. Senza che se ne rese conto, rimase lì tutta la notte, la statuina stretta in mano come una sorta di macabro trofeo, finché non sentì qualcuno scrollarlo forte per le spalle.
« Lion! Ehi, svegliati Lion! »
Cassie era su di lui, gli occhi azzurri come il cielo che si stendeva fuori da quella casa. Lion si accorse di come il tatto non fosse il suo forte, anche se decise di non farglielo pesare, toccandosi la spalla solo dopo che se ne fu andata.
Sembrava leggermente preoccupata, come lo erano tutti, d'altronde.
« Ehi, tutto bene? » gli chiese Alexis, notando come Lion stringesse la statuina di pietra al petto, con fare protettivo. Annuì, riponendo il dono di Proserpina nel suo zaino: mentre lei si legava i capelli, Lion non poté fare a meno di ricordare la spada che, nel sogno, aveva nel petto, gli occhi spalancati davanti alla morte.
Valutò l'opzione di dirle tutto, ma poi scosse la testa: che senso aveva caricarla di ulteriori responsabilità, oltre a quella di occuparsi di lui, il fratello romano che non faceva altro che ferirsi ogni volta che incontravano un mostro?
Zheng stava raccogliendo velocemente il suo materassino, mentre Serena si rifaceva il trucco, guardandolo da sopra lo specchio, aspettandosi sicuramente qualche frecciatina.
Si chiese come avrebbe potuto guidarli, lui, che non sapeva nemmeno controllare i suoi sogni. In fila indiana, poi, raccolsero i propri zaini e uscirono ordinatamente da quella casa maledetta, come una tranquilla scolaresca.
Lion, mentre si trovava per l'ultima volta su quella soglia, si voltò indietro, la sensazione di piangere che si faceva prepotentemente strada fra i suoi sentimenti. La ricacciò indietro, guardando il blocco di ghiaccio che campeggiava nel centro della stanza mezza distrutta, abbassando gli occhi per la vergogna e la tristezza.
« Vi salverò, è una promessa. »
Poi chiuse la porta e, frettolosamente, raggiunse gli altri attraverso il vicolo così simile a quello del suo sogno. Domande su domande affollavano i suoi pensieri, mentre la sua testa cominciava ad elaborare teorie sui due fidanzati che aveva visto prima dell' incubo.
Chi erano? Chi erano Charlie Olsen e questa fantomatica Federica?
Doveva sicuramente esserci un motivo se i suoi "sogni" avevano deciso di mostrarglieli. Di solito non mostravano mortali, quindi chi erano?
Mostri? Semidei? Nemici?
La voce di Castiel lo riscosse dai suoi pensieri e, dal suo tono insistente, capì che gli aveva già posto la domanda più volte.
« Dove dobbiamo andare? » gli chiese Castiel, gli occhi rossi e infossati, come se avesse passato la notte a piangere. Lion, sovrappensiero, stava cercando Caelie con lo sguardo.
« New Orleans. » rispose, la voce carica di timore, « È lì che dobbiamo andare per incontrare Didone. »
« Didone? » chiese, « Nella città della magia? »
La fronte di Castiel era corrugata per la preoccupazione, prima che i suoi occhi cominciassero a muoversi da un parte all'altra come se stessero svolgendo dei calcoli.
« Ne so meno di te, Cass. » rispose, tagliando corto la discussione.
Non aveva voglia di parlare, quella mattina, non con tutto quello che era successo quella notte, dopotutto.
Non aveva la forza per parlare.
« Io ho fame, che si fa? » domandò Cassie, mantenendosi la pancia con fare teatrale, « Mangiamo qualcosa, vi va? »
A dir la verità, Lion non aveva fame, ma gli altri sembrarono entusiasti, quindi lui non poteva mettere lingua e costringerli a partire, prima che avessero fatto colazione.
Camminarono fino a quello che Serena definì un "bar decente" dove, poi, Cassie e gli altri si fiondarono, comprando ciambelle e caffè.
« Io vi aspetto fuori. » sostenne Lion, quasi sussurrandolo a Caelie, uscendo prima che le pareti del bar diventassero troppo soffocanti. Si appoggiò stancamente ad muro, sotto l'insegna colorata del bar.
Il sole splendeva alto nel cielo, così luminoso che impediva a Lion di guardarlo direttamente. Sarebbe stata una giornata perfetta, se Lion fosse stato solo un newyorkese qualunque, cosa che non era.
Sfortunatamente.
A volte, cioè sempre, li invidiava: non avevano pensieri, non dovevano combattere per sopravvivere, non vivevano nella costante paura di morire. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter diventare uno di loro.
E invece no, era incastrato nell'essere per metà dio e per metà umano, troppo debole per essere una divinità, troppo forte per essere un mortale qualunque.
« Prendi. »
Caelie gli stava porgendo un bicchiere alto pieno di caffè. Sorrideva, forse perché lei non aveva fatto incubi, quella notte.
« O puoi anche continuare a non mangiare niente e morire. Certo, mi sembra una valida alternativa. » sostenne lei, notando come Lion opponesse resistenza.
Lei scrutò la sua aria da pirata, lo sguardo vissuto, la pelle scura. Vide i capelli in disordine sotto quel cappello di paglia storto, storto come il sorriso che campeggiava sul volto del figlio di Plutone, le poche volte che lo aveva visto sorridere.
« Tutto bene? » gli chiese, appoggiandosi anche lei al lampione senza fare tante storie. La maglietta che portava aveva un buco, come notò Lion, anche se lei non ci diede peso quando lui glielo fece notare.
La guardò, osservando i suoi occhi, così diversi da quelli bianchi che aveva visto, eppure così simili da fare davvero paura.
"Bella e letale." recitava la sua mente. Scosse la testa.
« Più o meno. » rispose lui, prendendo il caffè e sorseggiandolo piano. Era davvero un toccasana, dopo tutti quegli incubi in cui ingoiava o beveva sangue, « E comunque bevo solo caffè macchiato. »
Lei alzò le mani al cielo, imbastendo un sorriso.
« La prossima volta. »
« Già. » sospirò amaro Lion, finendo il suo caffè. Poi si voltò verso Caelie e vide i suoi occhi sgranarsi, puntando verso il cielo che prima era stato azzurro.
Per poco a Lion non mancò il respiro.
Il sole era diventato nero, coperto totalmente dalla luna, danzando nel cielo come una meteora. Il cielo era diventato di una sfumatura tra il nero e il grigio scuro, scatenando la curiosità e lo sconcerto dei passanti di New York.
« Era prevista? » chiese Caelie, sgomenta, osservando tutti i newyorkesi che fotografavano il sole nero con i loro cellulari.
Lion scosse la testa, gettando il bicchiere del caffè in un cestino e camminando velocemente verso l'ingresso del bar dove si trovavano gli altri semidei.
« Che sta succedendo? » domandò la figlia di Apate, seguendolo a rotta di collo. Sul suo volto si leggeva sconcerto e paura.
« Le eclissi sono sempre state dei cattivi presagi, nel mondo antico. » spiegò il figlio di Plutone, « Venivano reputate come un segno di morte e pestilenza, mandato dagli dei per avvertire i fedeli a compiere sacrifici per salvarsi. »
Caelie lo guardava, senza capire.
« La guerra è vicina, Caelie. » esclamò Lion, chiamando gli altri a gran voce, « Dobbiamo andare via di qui, raggiungere al più presto New Orleans e pregare che io mi stia sbagliando. »
Cassie uscì di fretta dal bar, seguita da Castiel e da Zheng, i loro sguardi tutti attratti dal sole nero che campeggiava nel cielo. Alexis gli lanciò uno sguardo eloquente, come a chiedergli spiegazioni, anche se non poteva capire.
Nessuno poteva capire.
Loro non c'erano, in quell'incubo, o meglio, c'erano, ma erano morti.
Con l'iperattività tipica dei semidei, Lion era ancora più nervoso. Li condusse in un vicolo e guardò dritto negli occhi di Alexis.
« Dobbiamo andare via di qui. » ordinò, deciso, recuperando un po' della suo classico comportamento da leader romano, « Ce la fai a portarci a New Orleans con un viaggio nell'ombra? »
Serena guardò prima lui e poi la figlia di Ade, non riuscendo a capire cosa il figlio di Plutone stesse dicendo. Cassie annuì.
« Così tanti? » chiese, sorvolando con lo sguardo ogni semidio e muovendo le labbra in una muta conta, « Non sono sicura di riuscirci, Lion. »
Il figlio di Plutone scosse la testa.
« Ti aiuterò io. E anche Zheng. » disse, « Siamo abbastanza esperti in Arti Infernali, dovremmo farcela. E dobbiamo sfruttare anche l'ombra che l'eclissi ci ha fornito, al più presto. »
Arti Infernali? Da quando aveva cominciato a parlare così dei poteri di suo padre?
Alexis annuì, porgendo le mani a Castiel e a Cassie, che porsero le loro fino a formare un cerchio perfetto. Lion stringeva la mano di Caelie, i suoi occhi che continuavano a guardarlo, come una sorta di ispettrice muta dei suoi comportamenti.
Lion chiuse gli occhi, focalizzando la città di New Orleans, un puntino su una mappa geografica infinita. Il marchio di suo padre cominciò a bruciare, ma non ci diede peso. Scavò mentalmente a fondo nel terreno, attingendo al potere degli Inferi, una riserva infinita di ricchezze e morte.
Condivise la propria stessa forza con Alexis.
La figlia di Ade inspirò, poco prima che venissero inghiottiti dalle tenebre.  

ImmortalsDove le storie prendono vita. Scoprilo ora