Il bambino di pietra

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Lion non sentiva altro che odore di morte.
Forse era lui o, molto meno probabilmente, qualcuno aveva deciso di buttare quintali di uova marce nel luogo in cui erano atterrati, stadi fatto che gli si rizzarono i peli sulle braccia, appena arrivarono a New Orleans.
Aveva sentito parlare della città, del famosoquartiere francese dove si diceva vivessero delle vere streghe, discendenti di quelle scampate al processo di Salem. Lion alzò lo sguardo, puntando i suoi occhi verso l'orizzonte, mentre i suoi polmoni venivano sconvolti dall'odore della morte.
Dei.
Le mani di Cassie mandarono scintille, trasmettendogli il suo nervosismo. La figlia di Zeus fece un sorriso imbarazzato, poi si avvicinò a Castiel e cominciarono a parlare a bassa voce, in modo che lui non potesse sentire. Il volto di Serena, accarezzato dalla morbida luce del sole, assomigliava molto a quello di sua madre, rappresentato dai vari artisti che si erano succeduti nel corso del tempo.
Per quanto Lion non lo desse a vedere, era nervoso più che mai: prima l'incubo, i due semidei che stava osservando. Poi la visita della regina degli Inferi, il dono della statuetta che appesantiva il suo zaino come piombo e, infine, la comparsa del sole nero nel cielo di New York che non faceva presagire nulla di buono.
Se era vero che le Moire tessevano il destino degli uomini, Lion era sicuro che avessero usato del filo spinato per disegnare gli oscuri contorni della sua vita.
Alexis era stremata e si era appoggiata allo spigolo di un edificio di mattoni rossi, cercando di recuperare velocemente le forze. Aveva la faccia verdastra per lo sforzo e faticava a reggersi in piedi. Zheng le era vicino, seduto a terra, la testa nascosta fra le ginocchia magre, evidentemente più stremato di quanto avesse dato a vedere.
Il figlio di Plutone scrollò le spalle, sentendo solo un leggero pizzicore alla base del braccio, dove il marchio di suo padre aveva bruciato prima che si gettassero in quel folle viaggio nell'ombra. Non sapeva come, ma aveva una brutta sensazione addosso, come se qualcuno gli alitasse costantemente sul collo, anche se lui non riusciva a capire chi fosse. 
Mosse un passo verso gli altri, osservando le centinaia di passanti che camminavano per le strade di New Orleans, le loro facce allegre, i loro sguardi divertiti nel visitare la città, al seguito di esperte guide turistiche.
Lion sospirò.
Si avvicinò a sua sorella, abbozzando un sorriso storto e offrendole la sua spalla per reggersi meglio. Non le era mai stato così vicino e, quindi, non aveva mai potuto notare le sottili pagliuzze dorate che si agitavano nei suoi occhi, neri come le piume di un corvo.
« Tutto ok? » le chiese, sostenendo il peso del suo corpo. Lei abbassò la testa in modo tale che la sua chioma scura la seguisse, per poi rigettarla indietro, muovendo a tempo i suoi capelli.
« Sono stata meglio. » confessò, burbera, trattenendo visibilmente il senso prepotente del vomito, « Siamo arrivati, si? » domandò, scrutando il profilo degli alti edifici della città in lontananza. 
Lion annuì, guardando anche lui nella stessa direzione della sorella, non sapendo, effettivamente, dove andare: Proserpina aveva accennato al fatto che Didone si fosse nascosta a New Orleans, ma non le aveva indicato ulteriori dettagli, un nome, magari, da cui cominciare.
« Se vuoi riposare, possiamo fermarci da qualche parte. » le propose Lion, notando come Alexis faticasse anche a muovere i piedi uno avanti all'altro. Scosse la testa, muovendo la sua massa di capelli neri. 
« Meglio di no. » rispose, raddrizzando la schiena, « Hai detto anche tu che c'è una guerra alle porte. Non possiamo permetterci di riposare, non adesso Lion. »
Per una seconda volta in quella mattina, Lion rimase stupito dalla forza di volontà di sua sorella. Il figlio di Plutone era quasi certo di aver visto, nei suoi occhi, lo stesso orgoglio superbo che si agitava anche dentro di lui. Forse era uno dei tratti caratteristici dei figli degli Inferi, l’unica cosa che ti fa andare avanti, la pagliuzza che ti impedisce di affogare. 
Qualcuno alle sue spalle fischiò di meraviglia, attirando l'attenzione di qualche passante.
« Ragazzi! » esclamò, il viso di Castiel puntato verso un edificio bello ed inquietante allo stesso tempo, una piccola targhetta di bronzo fissata sulla facciata, accanto alla porta. 
Lo sguardo di Lion corse lungo i contorni della casa, riconoscendola come uno di quegli antichi edifici coloniali, appartenuti sicuramente ad una delle famiglie più altolocate dei tempi della colonizzazione delle Americhe. L'edificio era in pieno stile con il resto della città, articolato su tre piani, solcato solo da alcune crepature sulla sua parte bassa, quella che veniva a contatto con la strada. 
Lion si mosse un passo dietro l'altro lentamente, portandosi dietro una zoppicante Alexis piuttosto contrariata, spinto ad avvicinarsi da una forza dolce quanto oscura.
Era sicuro di aver già visto quell'edificio, in qualche vecchia foto, ma non riusciva ad associarvi un nome. Quando fu abbastanza vicino all'entrata dell'edificio, una mano invisibile lo costrinse a fermarsi, proprio al centro della strada, quando dei brividi solcarono la sua schiena, decisi come le navi solcano le acque del mare. 
Voci e mormorii affollarono la sua testa, saggiando il campo di battaglia come fanno i serpenti prima di attaccare la loro preda, costringendolo quasi a lasciare la presa sulla vita di Alexis.
La voce di Zheng, alle sue spalle, gli diceva di non avvicinarsi, di non fare un passo oltre. Lion lo guardò e vide la disperazione nel suo sguardo, la stessa disperazione che provano i pazzi prima di essere rinchiusi in un manicomio.
"Casa di Madame Marie Delphine LaLaurie." recitava la targa accanto alla porta, le lettere nere che spiccavano sul metallo dorato. 
Conosceva qualcosa riguardo la tetra reputazione di quella casa, qualcosa che faceva urlare “pericolo!” a tutte le cellule del suo corpo. Eppure, quel qualcosa di così oscuro, lo attraeva, come con le calamite, costringendolo a muovere le gambe e dirigersi quasi in trance verso il grande ingresso dell’abitazione.
Sentì la pressione di una mano sulla spalla. 
« Che diavolo stai facendo, Lion?! » urlò Zheng, gli occhi scuri e infossati per la stanchezza che guardavano i suoi, in cerca di una spiegazione, « Hai visto benissimo l'aura di morte che avvolge questa casa. Non è saggio entrarvi, nemmeno per un semidio potente come te. »
Lion, per quanto terrorizzato fosse, scosse la testa, cominciando finalmente a capire il sistema di orientamento che i suoi sensi gli stavano indicando. Alexis tossicchiò, alla sua destra, tirando su col naso.
« Didone è qui. Dobbiamo farlo. » 
Questa fu l'unica cosa che disse, voltando poi il capo davanti al viso sconvolto di Zheng, prima di immergersi nell'atmosfera macabra di quella strana casa. Alexis, che molto probabilmente stava provando le sue stesse sensazioni, lo seguì a passo lento, lasciando il sostegno che suo fratello gli proponeva. 
I passi titubanti degli altri semidei risuonavano nelle orecchie di Lion, fermo al centro di un salone grande il doppio di quello che aveva visto al Campo Mezzosangue: eleganti colonne sostenevano il piano superiore, mentre poltrone e divanetti di seta riempivano il resto della stanza, assieme ad un grazioso caminetto, inutilizzato da tempo, relegato ai margini dell’enorme sala. 
Ad ogni passo che muoveva, riceveva in cambio ondate di paura. Gli tremarono le gambe, già coperte di tagli e lividi per la scorsa battaglia, mosse dal terrore che gonfiava il suo petto. 
I turisti, quei pochi così coraggiosi da visitare la dimora di Madame LaLaurie, non sembrarono notarli, così come gli agenti della sorveglianza, troppo impegnati ad aggiustare tutte le telecamere di sorveglianza che si erano rotte.
Caelie gli era affianco, la spada sguainata tra le mani, il viso piegato in una maschera di concentrazione ed ansia. Lion non sapeva che pensare di lei, soprattutto per via dei sentimenti che si agitavano nel suo cuore: dal suo ultimo incubo, infatti, si era accorto di provare qualcosa per lei, forse per il buffo modo in cui arricciava il naso, ma continuava a cercare di reprimerli, visto che non sapeva davvero nulla su di lei.
Dopotutto era una figlia di Apate, Lion era sicuro che sapeva mentire come pochi.
Attraversò con coraggio il salotto della casa, il tappeto a terra che attutiva il rumore dei suoi passi, dandogli la brutta sensazione che il tempo si fosse fermato, lì dentro. Una scala di legno laccato, posta in fondo alla grande sala dove si trovavano, portava al piano superiore, certamente identico a quello su cui si trovavano.
Lion passò accanto ad un vestito giallastro, adorno di balze e merletti, protetto da una spessa teca di vetro. Si bloccò, sbattendo contro il naso di Cassie, poggiando, poi, le dita sulla superficie fredda del vetro, chiudendo gli occhi: immagini e rapidi flash passarono davanti al suo sguardo, come una donna austera che indossava esattamente quel vestito, una mano che stringeva un coltello insanguinato e un uomo di colore legato a croce in una stanza piena di bauli e veli, tagli e ferite che correvano sul suo corpo.
Aprì gli occhi, reprimendo il senso di vomito che saliva prepotentemente lungo la sua gola. Zheng era dietro di lui, lo stesso sguardo austero della donna che aveva appena visto, le mani fasciate dalle bende bianche che aveva notato anche al Campo Mezzosangue.
Lion sostenne il suo sguardo, stropicciandosi le palpebre per scacciare gli ultimi stralci delle atrocità che avevano attraversato la sua memoria. Poi, con passo alquanto calmo e lento, si diresse verso le scale, sotto lo sguardo sconcertato di Cassie e Castiel.
Mosse un piede dietro l'altro, adesso ansioso di scoprire cosa lo aspettava al piano superiore. Tutto il suo corpo rispondeva al comando muto della sua volontà, disgustato, eppure attratto, dall'atmosfera macabra che si respirava in quella casa.
Salì l’ultimo gradino, poi si fermò, come se una mano invisibile avesse frenato le sue briglie.
« Lion, che sta succedendo? » gli chiese Serena, la voce incrinata per la paura, « Dimmi che non ci sono altri spiriti. » pregò, stringendo forte il suo arco, fino a far sbiancare le nocche delle mani. Il figlio di Plutone osservò i suoi compagni, prima di chiudere gli occhi ed essere sfiorato da delle dita fredde come ghiaccio.
Scosse la testa.
« No, sento solo ... »
« Una presenza. »  concluse Zheng, la voce tremolante come la fiamma di una candela esposta al vento, « Una presenza non molto amichevole. »
Cassie incrociò i suoi occhi, mentre la sua spada le appariva tra le mani, scintillante come un fulmine a ciel sereno. Castiel le porgeva la mano libera e la figlia di Zeus la strinse. Poi, prima che Lion potesse dire qualcosa, Cassie guardò oltre di lui e una voce fredda parlò alle sue spalle.
E fu come affogare nelle tenebre dell’inferno.
« Beh, figlio di Ecate, hai ragione. »
Per poco Lion non cacciò un urlo, quando si trovò faccia a faccia con quella che doveva essere Didone. L'aveva sempre immaginata diversa, magari bionda, invece adesso poteva constatare che aveva una pelle scura e abbronzata, due profondi occhi neri, capelli lunghi e scuri che le scendevano ricci sulle spalle. La sua faccia era bella, certo, anche se un po' spigolosa e letale, come le sue mani, sfilate, ma su cui correva un complesso disegno di vene e capillari sottili.
Fece spallucce quando si accorse dell’intensità dello sguardo di Lion, mostrando un sorriso delicato quanto feroce.
« Tornare dalla morte porta le sue conseguenze. » dichiarò, esibendo le mani da cadavere, « Avete commesso uno grosso sbaglio a venire qui, semidei. » disse, quasi più dispiaciuta che arrabbiata.
Lion ingoiò il groppo che gli era salito su per la gola.
« Il Fato ci ha condotti qui, Didone. » rispose il figlio di Plutone, la voce più calma di quanto avesse potuto immaginare, « Anche se non ne capisco il perché. »
Lei scoppiò in una fragorosa risata, di quelle che si fanno quando qualcosa fa veramente ridere di gusto. Poi parlò, la voce inacidita dalla rabbia.
« Il Fato? » chiese, irata, « Non venire a parlare di fato a me, romano. Giurai guerra alla sua stirpe, anche se, come vedo, siete riusciti lo stesso a sopravvivere. »
Lion scosse la testa.
« Potrei essere l'ultimo della mia razza. » disse, intristito. Poi, notando il sorriso che si era allargato sulla sua faccia, continuò, « Per qualche motivo lei è coinvolta nella nostra impresa. »
Didone gli voltò le spalle e camminò a grandi passi per il corridoio, invitandoli a seguirla. Lion era insicuro, addirittura titubante, ma riuscì lo stesso a comandarsi di stare calmo e camminare, per il  bene degli altri che lo seguivano.
Chissà quanto poteva essere pericolosa Didone.
« Avete sicuramente sentito parlare della dimora di Madame Marie, vero? » domandò, il sadismo che dipingeva una maschera di amore ed odio sul suo viso candido. Zheng annuì, sotto lo sguardo incuriosito di tutti, piegando la bocca in una smorfia di disgusto.
« Questa casa è stata il teatro di tutti gli orrori che la vostra testa è capace di immaginare. » spiegò, versandosi del bourbon da un contenitore di vetro scintillante, forse cristallo. Il vestito leopardato che indossava metteva in risalto le sue curve prosperose, così Lion non faticò ad immaginare cosa avesse provato gli altri uomini nel guardarla.
« Si dice che Madame Marie torturasse gli schiavi neri per ricavarne creme di bellezza per restare giovane. » continuò, bevendo dal bicchiere di cristallo, « Chi perse gli occhi, chi la bile, chi venne dissanguato proprio qui, in questa stanza. »
Lion si guardò intorno, provando un moto di disgusto che lo costrinse a retrocedere e ad allontanarsi dalla regina di Cartagine. Lasciò quasi cadere l’anello di ossidiana nero con cui giocherellava sempre quando era nervoso.
« Era un mostro. » constatò Castiel, la faccia sconcertata. Didone annuì, terminando il suo bourbon in modo elegante e poggiando il bicchiere esattamente nel punto dove lo aveva preso. Poi si avvicinò a Serena, studiando il suo volto ed ignorando Lion.
« Beh, ad ogni modo, ho trovato questa casa di gran classe, anche se ha un brutto passato alle spalle. » esclamò, il tono dolce e seducente di una sirena, mentre accarezzava uno Zheng alquanto raccapricciato, « Così ho deciso di farne la mia dimora. »
« Dopo essere fuggita dagli Inferi. » sussurrò Lion, sperando di attirare la sua attenzione, cosa che effettivamente fece. I suoi occhi scuri si infiammarono di rabbia, come quelli delle storie di demoni che si raccontavano al Campo Giove.
« Che hai detto? »
« Dopo essere fuggita dagli Inferi. » ripeté Lion, sostenendo il suo sguardo di fuoco con la sua stessa intensità, « Conosco ciò che hai fatto, Didone. Ma non mi interessa la tua storia, quando c'è in ballo il futuro di tutti i figli di Roma ancora esistenti. »
La sua bocca si spalancò in un sorriso, freddo e calcolatore, che andava da un estremo della faccia all’altro, facendo trasparire solo odio e ribrezzo per il figlio di Plutone.
« Non mi interessa ciò che hai da propormi, romano. » commentò, facendo un gesto leggero con la mano, « Non muoverò un dito per salvare la progenie di quel bastardo. Che muoiano tutti. »
Il labbro inferiore di Lion traballò per l'ansia che aveva addosso, come una sorta di coperta troppo spessa con cui faceva fatica a respirare.
« Lei deve aiutarmi! » urlò Lion mentre Didone gli aveva voltato le spalle e stava abbandonando la sala in cui si trovavano. 
Tutti i semidei si girarono a guardarlo, Caelie gli mise una mano sulla spalla, cercando di calmarlo, prima che gli occhi di Didone ancorarono i suoi, trafiggendolo come dardi di fuoco.
« Io non ti devo niente, figlio di Roma. » sibilò lei, la lingua biforcuta come quella di un serpente, « Ho giurato odio eterno contro la sua stirpe. » continuò, la voce rauca e sorda. 
Poi la sua voce cambiò, prendendo un accento antico e strano, completamente diverso dall’inglese che fino ad allora aveva parlato.
Latino.

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