XII - Spingimi verso sentieri già persi

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Ridammi indietro il cuore -
Negramaro

Aveva sempre pensato che nell'alba fosse racchiuso il segreto della speranza. Vedeva l'aurora come una salvatrice, quasi, che tratteggiando il cielo con le sue dita delicate faceva a brandelli la notte appena trascorsa e con essa anche la patina di sottile angoscia di cui era impregnata. Le ansie, le paure, i pensieri ricorrenti, ogni peso abbandonato sul cuore sembrava affievolirsi alla comparsa delle prime tonalità pescate, le ferite accumulate come lenite dai primi deboli e tiepidi raggi, l'ignoto spazzato via dalla sicurezza di un nuovo giorno.

L'alba le offriva una possibilità da non sottovalutare: "domani è un altro giorno, domani andrà meglio". Ci si aggrappava con ogni forza, se ne nutriva come se la notte appena trascorsa l'avesse costretta a un digiuno sfiancante; imboccava il cuore a poco poco, senza forzare, così che ne potesse godere al meglio e apprezzare ogni singolo istante.

Ne adorava la definizione omerica: ῥοδοδάκτυλος Ἠώς , Aurora dalla dita di Rosa. Era perfetta.

Era il suo momento preferito della giornata.

Gaia si strinse istintivamente nella felpa leggera, tirando la zip fino al collo e beandosi del profumo di Davide di cui il cotone era impregnato. Il freddo pungente e bagnato portato dall'umidità delle prime ore del mattino pareva stilettarle le ossa con fendenti sempre più violenti, riempiendole la pelle di brividi; avrebbe preferito che a darle calore fossero le braccia di Davide e non quell'indumento, che nonostante avesse il suo odore non era ovviamente paragonabile a lui. Si era dovuta accontentare, però, complice sia il comportamento distaccato e svogliato del moro, su cui aveva preferito non soffermarsi - tanto ci era abituata, in ogni caso - sia la situazione particolare: non era assolutamente il momento adatto per dare nell'occhio.
Nonostante i consueti fiotti di stizza che le risalivano in gola ogni volta che pensava alla loro clandestinità e che le rivestivano la lingua, spingendola a parlare con una certa audacia quando erano da soli, sapeva bene che l'equilibrio della mattina a venire era già di per sé sufficientemente precario; aggiungere altra carne al fuoco sarebbe stato assolutamente non necessario, se non addirittura controproducente.

Si trovavano lì perché Gigio aveva ricevuto una soffiata. Era venuto a conoscenza del giorno esatto in cui la società appaltatrice, in accordo coi vertici che si occupavano del progetto del gasdotto, avrebbe iniziato a recuperare i duecento ulivi situati in un'area agricola in cui sarebbe dovuto passare il tubo. Essendo questi fisicamente d'intralcio, era stato deciso a tavolino di spiantarli e trasportarli in un'area protetta - un vivaio, per inciso - per poi riposizionarli nella sede originaria una volta terminati i lavori.

Sì, col cazzo.

Chi garantiva loro che glieli avrebbero riportati indietro? Ancora peggio: chi garantiva loro che una volta presi quegli alberi secolari sarebbero stati trattati bene, con le dovute precauzioni, e soprattutto sarebbero davvero arrivati in un vivaio e non in una discarica, a rinsecchirsi, cotti dagli impietosi raggi del sole? Gigio aveva aizzato i suoi compagni, riempiendoli di indignazione col suo ventilare possibili scenari catastrofici e colmandoli di odio sciorinando insulti e bestemmie intanto che girava in tondo, calpestando il pavimento sporco e polveroso della Canaglia.
Sai che importava agli industriali e ai politici, d'altronde, degli alberi. A loro interessava solo scavare e trivellare al fine di guadagnarci qualcosa: tutti gli abitanti di Braconesi, così come la flora e fauna locale, non erano altro che incidenti di percorso, ostacoli fastidiosi come zanzare ad agosto, da scacciare via con la stessa facilità.

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