Come tutte le storie, questa inizia, anche se con una fine, più precisamente, la mia.
Al mio funerale vennero in tanti, la maggior parte non li conoscevo, ma si poteva dire che erano tutti lì per commemorare i morti del Titanic. Tra la folla vedevo mia moglie, la mia tenera moglie, Anne Brigitte, tremare, il nostro piccolo Michael, che le teneva la mano, fiero nel suo vestitino nero tirato fuori, e a lucido, giusto per l'occasione, e mia sorella Claire che, come suo solito, non si lesinava dal lanciare sguardi di astio a chiunque si avvicinasse un po' troppo. Ancora portava il lutto per il suo povero marito, ora ci sarei stato anche io, sulla lista.
Ero così assorto nella mia atterrita contemplazione che quando il vecchio mi mise una mano sulla spalla per scuotermi sobbalzai per lo spavento: "Avanti, ragazzo, non voglio stare qui tutta la sera, li hai visti, ora sei contento e possiamo andare di sotto. A star qui a prendere aria, altro che mal di schiena, posso buttarla direttamente."
Lo guardai, un attimo stralunato, poi lui mosse la mano, spazientito, mentre passava l'altra in direzione dell'enorme passaggio e la scena a cui stavo assistendo scomparve, lasciando posto all'enorme cielo azzurro, alle morbide nuvole che gli facevano da sfondo assieme a enormi pianeti che si intravedevano e galleggiavano, sfumati dalla distanza: vi erano Venere e Giove, Marte e Plutone, assieme a molti altri che non avevo mai visto sui libri di scuola, dai colori e le forme più disparate.
"Avanti, ragazzo, o vuoi farmi aspettare tutto il giorno? Ho del lavoro da fare e tu da imparare" grugnì il vecchio, mentre si avviava per la lunga scala a chiocciola, che pareva scendere e sparire fra un pavimento di nuvole. Mai, però, mi sarei azzardato a provarne la solidità. Anzi. Era risaputa la mia paura per le altezze, o per i mezzi di trasporto, per i cani grossi, gli spazi troppo aperti e affollati e tante altre cose ancora. O almeno lo era per la mia famiglia, non ci fosse stata Claire, prima, Anne Brigitte, poi, a trascinarmi fuori di casa probabilmente avrei seguito le orme di Giacomo Leopardi, passando la vita fra i libri, anche se di certo con meno brillanti risultati. Ero un libraio, non uno scrittore, e io su quel dannato transatlantico non ci volevo neppure salire.
"Vai e porta i tuoi polverosi libri in America, noi ti raggiungiamo presto. Ti chiederei di scriverci com'è, ma so che non alzerai naso da quelle pagine neppure per vedere se ci sono gradini in cui inciampare."
Come mi conosceva bene, la mia donna, la mia compagna per la vita. La prima cosa che avevo fatto, salito sul Titanic, era stato mancare l'ultimo gradino che mi avrebbe portato al ponte della cabina di seconda classe che condividevo con altre tre persone, a cui avevo degnato appena un'occhiata. La mia cuccetta era stata presto sommersa dai libri più preziosi che mi ero portato dietro e che non potevo accettare di lasciare nella umida stiva. Avevo passato tutto il mio tempo lì, senza rimettere naso fuori. Ecco, almeno non ero claustrofobico, ma il sapermi in mezzo al mare su un mostro a motore di metallo di 270 metri di lunghezza mi teneva arpionato ai miei amati tomi.
Più volte mi ero chiesto perché avessero voluto mandarmi lì. L'idea di spostare la libreria non era stata mia, non ero stato io a trovare il biglietto per quella trappola di acciaio, non ero stato io a decidere che, sempre io, in qualità di capofamiglia, dovevo andare e vedere coi miei occhi com'era la vita nella gloriosa America. Mi mancavano anche diversi decimi ad ambedue gli occhi, avevo fatto notare come la metafora non fosse appropriata.
In ogni caso non avevo avuto scelta, persino Michael aveva insistito, trascinato dall'entusiasmo delle donne di casa. Figlio traditore, aveva solo sette anni e già mi aveva venduto alla vista di un paio di tette.
Dovevo mettere piede sulla Terra delle Meraviglie e invece ero finito in quel posto che scindeva da una qualsiasi legge fisica, chimica, geografica, razionale e dal semplice azione-reazione. Posai la mano sul freddo acciaio della ringhiera troppo sottile per i miei gusti, aggrappandomi con lo stomaco che avvisava che stava per rimettere. Non staccavo le dita neppure quando incontravo le foglie del rampicante che si attorcigliava tutto attorno alla scala a chiocciola. Persino quella pianta era completamente sconosciuta, le foglie larghe con disegni mai visti, alcuni che mi parevano addirittura avere una forma sensata, come volti, oggetti o addirittura edifici famosi. Ma di certo era il mio cervello che giocava brutti scherzi.
"Quindi quello era... il p-presente? Il futuro?" mi azzardai a chiedere, lo sguardo fisso avanti a me, per paura di incontrare il vuoto sotto ai gradini in metallo.
"Nessuno dei due, ragazzo, entrambi, poco importa. Capirai presto che il tempo è relativo, soprattutto in un rapporto tra il mondo mortale e il Crocevia. Non hai mai sentito parlare di Einstein?"
"E-Einste-che?" balbettai, mentre finalmente raggiungevano il livello delle nuvole, per poi scendere ancora più in basso.
"Niente, ragazzo, niente. La vostra storia è così ricca che a volte faccio confusione con le date. Probabilmente nel 1914 non era ancora così famoso. Ah, la mia povera testa, non potevo essere un dio di quelli onnipotenti e onniscienti, no, tutto quello che mi hanno dato è stato un corpo da vecchio, ma immortale, e un labirinto dove incidere i momenti. Bah, insulsi mortali, se devono fare le cose, almeno le facciano bene, non rendano le cose impossibili a un povero anziano..."
Misi le sue lamentele in secondo, terzo piano, mentre ancora una volta mi ritrovavo a sgranare gli occhi.
Il vecchio aveva ragione a definirlo un labirinto, fatto di scaffali e pile di libri. Se l'immenso cielo in cui si trovava il portale non aveva fine, la stessa cosa era per le pareti di quel posto, i mobili in legno semplicemente si perdevano nell'oscurità. Un soffitto e un pavimento c'erano, entrambi fatti in grosse e levigate pietre dai colori caldi. Se gli scaffali più alti arrivavano ai tre metri, l'altezza del soffitto li superava di tre volte tanto, quindi lo spettacolo dalla scala era più che considerevole. Nell'immensità delle nuvole il portale era stato l'unico a svettare, dal soffitto di quell'immenso labirinto si aprivano invece più e più aperture, con decine e decine di scale, a chiocciola e non, oppure quelli che parevano elevatori più o meno futuristici a volte anche solo strane e vuote piattaforme. In alcuni punti, invece, si ergevano montagne, pile di libri dalle copertine dai più svariati colori, formando quello che era un vero e proprio paesaggio naturale.
Come per quando eravamo saliti per quella lunga scala, per un attimo mi dimenticati della paura e mi fermai a osservare quello spettacolo, illuminato da fuochi fatui dalle differenti dimensioni e colori, che si liberavano in aria neppure fosse stata la cosa più naturale del mondo.
Uno di questi si mosse dalla sua postazione, volandoci incontro.
Era grande più o meno come la mia mano aperta, un corpicino dalle forme umanoidi ma abbozzate e fiammeggianti. In quel momento era di un arancione chiaro ma quando si attaccò alla barba del vecchio il colore divenne scuro, quasi rosso e il fuoco fatuo emise un crepitio tanto acuto da poter sembrare uno squittio. Sbattei le palpebre, interdetto, perché avrei potuto giurare che era stato un verso di saluto.
“Ah, questi stupidi mostriciattoli, sempre tra le scatole” si lamentò l’anziano, dando un colpo con la mano alla creatura, che volò nella mia direzione, colpendomi al petto. Con un’esclamazione di spavento mi tirai indietro, incontrando il gradino e finendo per dare una sederata. Mi tastai il gilet che portavo, sicuro che il contatto col fuoco fatuo lo avesse in parte bruciato. Invece era intatto e, in effetti, ora che ci pensavo, non avevo sentito calore quando la fiammella volante mi aveva colpito, solo una lieve consistenza, come un vento tanto vicino da poter sentire la compressione dell’aria.
Il fuoco fatuo pigolò, dispiaciuto, un rumore che solo il fuoco avrebbe potuto fare, ma quella fiamma non mi aveva scottato. Avevo visto così tante cose impossibili in quelle poche ore che, se prima mi sarei cercato un libro dietro cui nascondermi, mi ritrovai ad allungare la mano. Tremava, ma andò avanti fino a sfiorare la testolina, grande quasi due terzi del totale e rotonda, di quello strano essere. Stessa sensazione di prima, non vi era pelle o quant’altro in quella figura avvolta da fiamme che non bruciavano, ma una sorta di consistenza improvvisa che impediva di andare avanti.
Sobbalzai di nuovo quando la creaturina si mise a fare dei versi che sembrano… fusa?
“Vuoi rimanere a giocare tutto il giorno con lei? Andiamo, questo tour dovrà pur finire, prima o poi!” sbuffò il vecchio, riprendendo a scendere. Titubante, mi rialzai e gli andai dietro, tenendo d’occhio il fuoco fatuo, che dal canto suo prese a seguirci.
“C-cos’è?” domandai, riaggrappandomi alla ringhiera, cercando di ignorare il buco che percepivo nello stomaco: non pareva che quel tizio si sarebbe fatti problemi a lasciarmi lì fino a quando non sarei sceso rotolando. Meglio distogliere l’attenzione dai metri che ci dividevano dal pavimento.
“Uno spirito” rispose, sintetico, il vecchio.
“Uno s-spirito?” ripetei, interdetto.
“Non dirmi che sei uno di quelli che ripetono le ovvietà a pappagallo” sbuffò: “Sì, lo spirito di un essere umano. In questo caso. Chiunque abbia avuto un rilevante ruolo nel scrivere la Storia, abbastanza dall’essere ricordato, quasi adorato, si trova qui. La loro impronta è così forte che le regole dei libri sono più facili da rompere, per loro, per questo vagano liberi per il Crocevia. Ma sono per lo più presenze, quella potrebbe essere Cleopatra come Giovanna d’Arco, se ricordano il sesso che avevano da mortali è già tanto.”
Lo ascoltai, affascinato. Ciò non rese però più breve il resto della discesa. Continuai anche, però, a lanciare occhiate alla creaturina, che ci seguiva, apparentemente contenta, rischiando per questo più volte di mettere il piede in fallo. Arrivai intero infondo per puro miracolo.
Avrei chiesto un attimo per riprendermi se il vecchio fosse stato ancora a portata d’orecchi. Lo fissai per qualche istante muoversi fra gli scaffali, la figura retta e muscolosa, nonostante gli anni che pareva avere sulle spalle. Potevo immaginare il volto abbronzato e imbronciato spuntare dalla zazzera bianca e la riccia barba, con su l’espressione che solo gli anziani che ancora erano intenzionati a vivere potevano avere. Gli avrei dato ottant’anni, ma aveva più energie e resistenza di me. Anche se effettivamente non ci voleva molto.
Presi un bel respiro e gli andai dietro, correndo impacciatamente per recuperare il terreno perso. Una volta arrivato a una distanza più accettabile rallentai e aspettai che il fiatone passasse prima di porre un’altra domanda. Era quello che avevo fatto più o meno da quando ero arrivato lì, porre domande su domande, fino a quando non avevo chiesto se potevo vedere mia moglie, mio figlio e mia sorella. Il vecchio aveva risposto a tutte, palesemente scocciato, ma con meticolosità, poi mi aveva condotto davanti al portale. E da lì era stata pazzia pura.
Un secolo per ciascun portale, poi lì davanti si decideva il dove da una mappamondo dove si doveva immaginare la destinazione. Si impostava il tempo, ma solo quello che andava più vicino al momento. Quel posto non registrava il tempo in modo sequenziale, piuttosto a fatti, momenti importanti e significativi, che fossero di persone, famiglie, nazioni o del pianeta stesso.
Così mi ero ritrovato davanti il mio funerale.
“P-perché i numeri sono s-scritti con quelli arabi? Non sarebbero più corretti quelli romani? O anche una semplice numerazione che scinda dal calendario c-cristiano?” mormorai.
Sotto l’arco del portale che mi aveva mostrato ciò che restava della mia famiglia vi era un grosso numero venti in metallo che veniva sorretto da decorazioni in uno stile liberty, anche se relativamente semplice.
“Sei al Crocevia, ragazzo. Vedi ciò che vuoi vedere, principalmente, o come credi che debba essere” l’anziano si fermò, voltandosi verso di me: “Dimmi, come mi vedi esattamente?”
Mi presi qualche istante di riflessione, prima di rispondere, titubante: “Un notaio o… un avvocato in pensione?” azzardai “Comunque un uomo di alta elevazione sociale..?”
Il vecchio scoppiò a ridere e io incassai la testa fra le spalle, in imbarazzo: mi era più facile giudicare un libro da una rapida lettura che una persona. Anche mi avesse raccontato la sua vita passo per passo avrei continuato a non capirla. Quello accadeva con mia sorella. Ma non con Anne Brigitte. E con Michael… la sua vita la stavamo scrivendo assieme.
L’anziano si fece ancora più dritto e imponente, guardandomi serio: “Un notaio?” ripeté, facendomi sentire al pari di un bambino che ha appena dato la risposta sbagliata al proprio preside. Non mi era accaduto molto spesso, ma quando mi ero ritrovato di fronte a quel grosso e scuro omone ero sempre a un passo dal farmela sotto: “Io sono Kairos! Sono un dio! Il dio greco che valuta, conosce e archivia la quantità qualitativa del tempo, sciocco umano."
Mi bastò un battito di ciglia perché l’elegante vestito di sartoria con cui l’avevo visto vestito fino a quel momento scomparisse, sostituito da un chitone, al posto delle scarpe tirate a lucido vi erano ora dei sandali e non mi sfuggì neppure la spada che improvvisamente portava al fianco.
Spalancai la bocca, probabilmente in un immagine più patetica di quanto non fossi già d’insieme, dato che il dio scoppiò a ridere. Anche il fuoco fatuo scoppiettò, divertito.
“Vedi? Il mondo di voi mortali è regolato da quella che definite realtà, leggi fisiche, chimiche, matematiche, quello che vuoi. Ma tutto il resto…” si portò due dita a indicare le tempie: “Tutto ciò che resta è semplice frutto di questo. Della vostra mente, dei vostri pensieri, da ciò che viene partorito dalle vostre sinapsi. Storie, divinità, sogni, incubi, emozioni… è tutto qui” spalancò le braccia “Ovunque e da nessuna parte. Benvenuto al Crocevia, Bibliotecario.”