La ragazzina, accoccolata su se stessa, le ginocchia al petto e la schiena al muro, si mangiava le unghie dal nervosismo. Suo fratello non tornava da troppo tempo. Ad ogni brusco rumore, ad ogni ringhio, ad ogni urlo che sentiva, le sue orecchie si rizzavano immediatamente, attente, spaventate. Le veniva da piangere.
Non avrebbe dovuto chiamare Roger, non avrebbe dovuto mettere anche lui in pericolo. Perché lo aveva fatto? Sarebbe potuta rimanere chiusa lì dentro, sarebbe potuta scappare da sola. E invece, seppur non ne sapesse nemmeno il motivo, aveva chiamato Roger. Aveva messo anche lui nei guai. All’ennesimo doloroso, forte rumore, si premette entrambe le mani sulle orecchie, tremando. Doveva fare qualcosa.
Dopo quel tonfo udì solo il silenzio.
Il cuore le batteva a mille, le lacrime avevano iniziato a scendere, quiete come l’assordante silenzio che proveniva dalle camere del piano superiore. Aveva bisogno di sapere cosa stesse succedendo, aveva bisogno di capire e aveva bisogno di aiutare suo fratello. Raccolse tutto il proprio coraggio e le forze, alzandosi in piedi e aprendo lentamente la porta della camera.
“Devi promettermi che resterai qui, qualunque cosa accada”.
Non poteva lasciare che Roger si facesse male. Avrebbe infranto la promessa, sì, ma quando sentì l’urlo terrorizzato del fratello corse comunque fuori dalla camera, salendo per le scale.
Sentì suo padre ridere. I gemiti strozzati di Roger erano appena udibili, ma sufficienti per far ribollire di rabbia il cuore di Clare.
La ragazzina afferrò la prima cosa che si era trovata davanti. Una padella, pesante da farle quasi cadere le braccia.
Uscì dalla cucina, silenziosa come un gatto. Doveva fare presto. Diede una veloce occhiata alla stanza di suo padre, che era buia e vuota.
Aprì la porta del bagno con estrema cautela e quello che vide la terrorizzò.
Roger aveva i polsi legati dietro alla schiena, si dimenava come un animale in gabbia mentre loro padre lo sovrastava, stringendo un sacchetto di plastica trasparente attorno alla sua testa. Clare capì, dai suoi gemiti disperati e raschiati, che suo fratello stesse cercando disperatamente di gridare, di respirare.
La ragazza non riusciva a muoversi. I suoi occhi erano spalancati, sentiva il corpo tremare, forte, scosso dalla paura e dall’ansia che stava provando per quel ragazzo in pericolo, per la persona che l’aveva sempre protetta e difesa, per la persona più preziosa e importante della sua vita.
Le venne in mente quell’ultimo sorriso, quell’ultimo dolce e sincero sguardo, quegli occhi, identici ai suoi, che la osservavano dimostrandole tutto il bene del mondo.
“Tu sei capace di fare davvero tanto, sorellina. Non preoccuparti per i bulli che ci sono a scuola, perché non valgono nemmeno un briciolo di ciò che vali tu. E puoi giurarci, li ridurrò tutti a pezzettini.”
Non seppe perché le venne in mente quel ricordo. Clare era tormentata dai bulli per la sua dislessia, alle elementari. Eppure, Roger le aveva dato sempre la forza per continuare sulla propria strada, senza mai perdere le speranze.
Vide suo fratello smettere di agitarsi, vide le sue ginocchia cedere.
Non si accorse nemmeno di quando colpì suo padre. Fu un forte colpo, un rumore sordo che la fece risvegliare. Vide l’uomo cadere a terra.
Sentì suo fratello ansimare, mentre la busta che aveva sulla testa si afflosciava, leggera, sul pavimento.
Lo sentì tossire, pallido come la morte e con gli occhi grandi e azzurri spalancati. Clare ansimò, deglutì mentre guardava suo padre riverso a terra. Non lo aveva ucciso, si accertò che l’uomo respirasse. Clare teneva ancora la padella sospesa per aria, il tremore delle braccia che non aveva intenzione di fermarsi.
Lanciò un’occhiata a suo fratello, felice e sollevata nel vederlo recuperare, lentamente, il respiro che gli era stato tolto. – Mangerò anche solo verdure per un mese. Ma almeno, non sarò costretta a venire al tuo funerale.
Vide Roger guardare il padre, spaventato, sperduto, stordito. – N-Non è… Non è morto, vero?
La sua voce, così stanca, debole e rauca, spezzò il cuore di Clare. – No, non sono mica così scema da ucciderlo. Gli ho semplicemente impedito di uccidere te.
Gli occhi di Clare si velarono di lacrime, contro la sua volontà. Non voleva piangere davanti a Roger, voleva fargli vedere e capire che andasse tutto bene, voleva renderlo tranquillo, sereno. Vide il fratello alzarsi, gemere al movimento che gli era costato energie e forza. Lo sentì accasciarsi quasi su di lei, lo sentì mentre le sue fragili braccia tremanti le avvolgevano il corpo, mentre lo sentiva continuare ad ansimare leggermente. Lo strinse a sua volta, facendo attenzione a non fargli male.
- Grazie, Clarie. Sei fantastica. Sei la migliore sorella che potessi desiderare. – Lo avvertì scostarsi, allontanarsi, solo per sentire poi le sue dita affusolate asciugarle le lacrime che lei non era riuscita a fermare, lo vide sorriderle. Quel dolce, bellissimo sorriso, luminoso come la luce delle stelle che cominciavano a spuntare nel buio cielo di Londra. Sentì che fosse tanto fortunata, ad averlo lì con lei. Vivo, cosciente, seppur fragile ed esausto.
- E sono fiero di te.
…
- Ti prego, Roger. Parlami, dimmi qualcosa. Qualunque cosa. Per favore.
Brian era seriamente preoccupato. L’ansia gli entrava nel corpo come fosse aria, mentre guardava Roger tenere lo sguardo fisso sul muro. Non si muoveva, aveva smesso di piangere da un po’ di giorni.
Quasi una settimana prima aveva gridato, pianto, urlato per tutto il viaggio di ritorno e per tutti i giorni che erano seguiti. Ad ogni strillo il cuore di Brian si crepava sempre di più, facendogli quasi male.
Brian aveva lividi ovunque, sulle braccia, sulle gambe, aveva un occhio nero e un graffio sullo zigomo, dovuti ai numerosi tentativi di Roger di scappare dalla sua macchina e dalla casa che condividevano in quattro, per tornare da Clare.
Si era sentito urlare cose come “Stronzo” o “Ti odio”. Sapeva che Roger non le dicesse apposta, che fossero solo frutto della rabbia e dell’agitazione, dell’odio che, in quel momento, nutriva verso suo padre. Però gli fecero male comunque.
Brian non ce l’aveva fatta più. Lo aveva preso tra le sue braccia, lo aveva stretto a sé accarezzandogli i capelli, mentre lo sentiva piangere e urlare, mentre sentiva i pugni di Roger battergli contro il petto togliendogli il respiro. Lo aveva visto nelle peggiori condizioni di sempre, ma aveva continuato a tenerlo a sé, a cullarlo, ad accarezzarlo, a proteggerlo.
Accarezzò lentamente una guancia morbida e chiara del suo ragazzo, mentre lo guardava tremare, lo sguardo ancora fisso contro il muro, il corpo, seppur scosso da brividi, immobile.
- Roger. – lo chiamò, spostandogli delicatamente una ciocca di capelli dietro un orecchio.
Vide due occhi blu puntarsi nei suoi, guardarlo, lucidi. Erano degli occhi disperati e imploranti, imploranti d’aiuto, distrutti e tremanti. Brian accarezzò una guancia di Roger, sentendo però poi la piccola mano scostare la sua, vedendo quegli occhi abbassarsi di nuovo.
- Posso fare qualcosa per te, Rog?
- Riportami Clare.
Brian deglutì. In quelle parole, in quella frase, sentiva tutto il dolore che il ragazzo stava provando. Sfiorandogli nuovamente la guancia sospirò. – Vorrei. Rog, davvero, vorrei. Farei qualsiasi cosa per farla tornare.
Vide Roger guardarlo nuovamente. – Ma non puoi. Tu mi hai allontanato da lei.
Il giovane chitarrista non sapeva cosa dire. Né cosa fare. Era come se la sua gola fosse chiusa, come se le parole non riuscissero ad uscire. Quando Roger strattonò la mano che aveva cercato di prendergli gli si spezzò il cuore.
- Mi dispiace, Roger. Mi dispiace tanto e io…
- Le tue parole non mi riporteranno mia sorella.
Roger era ferito. Talmente tanto da non riuscire nemmeno più a piangere. Sentiva dolore, tanto dolore. Forse troppo. Dolore che lo gli aveva intorpidito il cuore e le emozioni. Era diventato insensibile a quelle ferite che tanto erano profonde da non fargli sentire assolutamente nulla. Solo rabbia.
Clare era tutto ciò che nella sua famiglia gli permetteva di non crollare.
“Tu non preoccuparti. La faccio rimettere io in carreggiata, mamma.” Gli aveva detto quel giorno in cui avevano portato Winifred in ospedale. Gli sorrideva e lo rassicurava come sempre. Roger si sentiva talmente fiero di lei che non riusciva ad esprimerlo neanche a parole. Era matura, dolce, gentile, forte. Non era più la bambina che aveva paura dei bulli e del buio. No. Era una donna. Una donna determinata e altruista, la sorella migliore che lui potesse desiderare.
Come avrebbe fatto, senza Clare? E sua madre, cosa avrebbe fatto? Stava iniziando a realizzare. Stava iniziando a vedere con lucidità la situazione dopo interminabili giorni passati a piangere senza nemmeno capire. Giorni passati svegliandosi e credendo che tutto fosse al suo posto.
Qualcosa, in lui, si era spezzato. Se ne accorgeva da solo. Dal fatto che non sorridesse da giorni, che non avesse voglia di suonare e che non riuscisse neppure più a piangere. La presenza di Brian non era gradita come prima. Voleva solo stare da solo, senza nessuno. Eppure il ragazzo era lì, davanti a lui, sebbene gli avesse detto più volte di andar via.
- Non puoi fare assolutamente nulla, per me. – gli aveva detto, senza guardarlo. – Se proprio vuoi farmi un favore, lasciami da solo.
- Non posso lasciarti da solo. E non voglio farlo, e non lo farò. – gli accarezzò dolcemente uno zigomo. – Voglio solo vederti sorridere, anche se so quanto ora sia impossibile.
Roger chiuse gli occhi. – Tu hai lasciato che lui… Che lui… - strinse forte i pugni. – Avrei potuto ucciderlo. Ammazzarlo come lui ha fatto con Clare.
- Io l’ho fatto per il tuo bene, Roger.
- Ah, sì? – gli occhi azzurri del ragazzo erano iniettati di sangue e rabbia. – E a che scopo?
- Come ti saresti sentito, portandoti il peso della morte di un uomo sulle spalle per tutta la vita?
- Ha ucciso mia sorella. Ha cercato di uccidere me molteplici volte e ha distrutto mia madre. Datti da solo una risposta.
- Io voglio solo farti star bene.
- Non dire cazzate. – Roger si alzò in piedi, allontanandosi dal ragazzo dai capelli ricci che gli appoggiò poi una mano sulla spalla, che lui scansò immediatamente. – Non mi toccare.
Brian deglutì. Stava per lasciarlo andare, quando se lo vide crollare letteralmente addosso. Lo strinse forte a sé per impedirgli di cadere e lo guardò. Era bianco, completamente cadaverico. Lo fece appoggiare nuovamente sul piccolo divano del monolocale, scostandogli i capelli biondi dalla fronte. Gli occhi azzurri erano semiaperti, esausti.
Un moto di apprensione scosse il petto di Brian. Il chitarrista accarezzò i capelli di Roger. – Devi riposare.
- Vattene. – un filo di voce. Talmente basso che il ragazzo più grande lo sentì appena.
- No.
Gli occhi di Roger si spalancarono e il ragazzo scattò a sedere. – Vattene!
Un urlo. Forte e spossante. Gli occhi di Brian si fecero lucidi. – No.
- Vattene, vattene, vattene! – strillò ancora, alzandosi in piedi. – Non voglio più vederti. Ti odio! Ti odio!
Ad ogni grido il cuore di Brian si crepava sempre più. Era come se il dolore che stava provando Roger stesse trafiggendo anche lui. – Roger.
- Non voglio vederti. Lasciami solo. Ti prego.
…
Roger sbuffò pesantemente, quando all’ennesimo tentativo il suono della batteria non lo convinse ancora. Riprovò una, due, tre volte, ma ancora non era per niente soddisfatto del suo lavoro. Scosse la testa. Quella non era proprio giornata. Il 1970 era arrivato da ormai due mesi e lui, Freddie e Brian si limitavano a mettere su piccoli concerti in qualche college o locale. E se lui non avesse suonato decentemente quella batteria, non avrebbero fatto altro per anni.
Ricominciò a battere le bacchette sulle proprie percussioni, imprecando quando interruppe il ritmo, di nuovo. Sospirò, facendo cadere le spalle. Alzò la testa dalla batteria, puntando lo sguardo verso la porta del garage in cui suonava. Vide una testa bionda nascondersi dietro allo stipite, per poi alzare un sopracciglio e sorridere, divertito. – Guarda che non c’è mica bisogno di spiare.
- L’ultima volta che sono venuta a vederti mentre suonavi, mi hai urlato in testa di non romperti le palle. – Clare uscì allo scoperto, incrociando le braccia al petto. Roger sollevò le spalle. – Quella volta mi stavi dando fastidio.
Vide gli occhi azzurri di Clare roteare dietro alle orbite. – Sì, certo. Non ti do fastidio solo quando ti cucino i biscotti.
Il ragazzo si alzò dallo sgabello su cui era seduto, andando nella direzione della sorella e toccandole la punta del naso con un dito. – E’ vero. Però devo dire che non sai nemmeno nasconderti bene.
Clare si sedette sulla scrivania su cui Roger, di solito, scriveva le sue canzoni e le parti per la sua batteria. – Come va con Brian?
Il fratello si accese una sigaretta, portandosela alle labbra. – Vuoi scherzare?
- No. – la diciassettenne fece oscillare le gambe. – Solo che mi manca.
Il ragazzo storse il labbro superiore. – A te? Ma sei scema?
La più piccola scosse la testa. – Gli voglio bene. E’ gentile, e al contrario di te è anche divertente.
- Ma stai zitta. – Roger aspirò un’altra boccata dalla sigaretta. – Comunque… Va bene, credo.
Clare inarcò un sopracciglio.
- Perché mi guardi con quella faccia di merda?
- Perché se andasse bene adesso non saresti qui, ma a casa sua, a fare le cose zozze.
Roger sbatté le lunghe ciglia bionde. – Come, scusa?
- Che? Ti scandalizzi per questo?
Il maggiore sospirò. – Stare con il nonno non ti fa per niente bene.
- No, infatti. – Clare saltò giù dalla scrivania. – Però, come va con Brian? Seriamente.
- Come sempre.
- E che vuol dire “come sempre”?
- Vuol dire che non sono cazzi tuoi.
La sorella mise il broncio, aggrottando la fronte e piegando all’ingiù il labbro inferiore. – Guarda che io ti parlo di David.
- Sì, ma tu sei un’adolescente. E’ normale che tu abbia bisogno di far gossip sulla tua vita privata, Clarie.
Clare alzò gli occhi al cielo. – Hai bisogno che io lo picchi?
Roger aggrottò la fronte. – No?
- Lo hai già picchiato.
- Può darsi.
Clare sorrise, allungando un pugno verso il fratello battendoglielo poi sulla spalla. – Questo è il mio Roggie.
- Mi chiamavi così quando avevi sette anni e non riuscivi a pronunciare “Roger”
- Tu mi chiami ancora Clarie.
Il ragazzo alzò le spalle. – Ti chiamano tutti Clarie.
- Mamma no.
- Cosa cazzo c’entra mamma?
- Mamma mi chiama Clare. – fece una pausa e sospirò, portandosi una mano al cuore. – Anche David mi chiama Clare.
Il fratello storse il labbro. – Cioè, che vuol dire? Che se non ti chiama con un nomignolo non gli interessi?
- Sì.
- Ma se Brian mi chiama “Rog”.
- E’ cotto.
- O, semplicemente, il mio nome è insopportabile da dire. – Roger alzò le mani, rendendo la voce più grave e facendo una smorfia. – “Roger”.
La sorella rise, prendendogli una mano e giocando con le sue dita sottili e affusolate. – Secondo me dovrebbe chiamarti Roggie.
- Finiscila.
- Roggie, oh, mio Roggie!
- Vuoi che da oggi in poi, quando ho bisogno di te, io ti debba chiamare “Clare Meddows Taylor” tutte le volte?
- Per carità! – la ragazza alzò le mani, sollevando di conseguenza quella di Roger. Il fratello sorrise, soddisfatto. Tutto sommato, passare del tempo con sua sorella gli piaceva. Lo divertiva, lo distraeva da tutti i problemi. Sapeva che Clare sarebbe stata l’unica di cui si sarebbe potuto realmente fidare, l’unica che sarebbe rimasta dalla sua parte anche se fosse stato in torto, l’unica che lo avrebbe difeso, l’unica che gli avrebbe davvero voluto bene.
Era sua sorella, sangue del suo sangue. L’avrebbe protetta davanti a qualsiasi cosa.
- Grazie per avermi aiutata a studiare, stamattina. – gli disse la sorella.
- Ti ho aiutata solo perché stavi studiando biochimica. Altrimenti non lo avrei fatto.
La ragazza aggrottò la fronte. – Perché questo razzismo verso le altre materie?
- Perché sono uno studente di biologia. Per me quelle che studi tu sono bazzecole. Se tu mi avessi chiesto di aiutarti in, che ne so, matematica, avrei buttato il libro, il quaderno, la scrivania, te e me stesso dalla finestra.
Clare sorrise, abbracciando il fratello. Roger ricambiò, stringendola più forte a sé.
- Roggie?
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo nel sentire quel nomignolo. – Eh.
- Sei speciale. E io ti voglio tanto bene.
…
Brian si svegliò a notte fonda e si sedette sul letto stropicciandosi un occhio e sbadigliando. Si guardò attorno. Era strano non vedere Roger dormire al suo fianco. Ci aveva fatto l’abitudine. Quando sentì un lieve respiro nella stanza, però, si rese conto che c’era qualcun altro, lì. John dormiva nel proprio letto, le braccia sistemate sotto al cuscino e le coperte tirate fino al naso. Probabilmente gli era mancata la sua camera. E Roger, allora? Dov’era?
Lasciò che i piedi si liberassero delle coperte, infreddolendogli tutto il corpo. Con un brivido leggero infilò le pantofole e si alzò, camminò verso l’ingresso e Roger era lì, proprio dove lo aveva lasciato. Piccolo e tremante, distrutto. Il cuore gli si strinse. Non meritava tutto ciò che stava passando. Non meritava di restare lì, immobile, a tremare a notte fonda.
Brian non si fece alcun problema ad entrare. Non gli importava del fatto che, forse, Roger avrebbe urlato ancora. Non gli importava nulla. Voleva solo stare accanto a quel povero ragazzo spezzato.
Il divano affondò sotto di lui, mentre il chitarrista allungava una mano verso il viso del suo ragazzo, spostandogli i capelli biondi dagli occhi.
Roger lo guardò. Era uno sguardo diverso da quello di quel pomeriggio. Era vulnerabile e fragile, disperatamente bisognoso di aiuto. Si lasciò andare al contatto con la mano del maggiore, chiudendo gli occhi.
Brian si avvicinò a lui e gli premette un bacio sulla fronte. Gli prese delicatamente le mani. – Come mai non dormi?
- I-io… Io non… - Roger sembrava sul punto di piangere. Era come se si stesse trattenendo, anche se non ce ne era motivo. Brian se ne accorse.
- Se non te la senti di parlare, non farlo. Ma lasciati andare. Non negarti di essere fragile, non con me.
I singhiozzi scoppiarono immediatamente. Il chitarrista prese il suo ragazzo tra le braccia, accarezzandogli dolcemente la testa, cullandolo sul suo petto. Non si preoccupò delle lacrime che gli bagnavano i vestiti, continuò semplicemente a stringere quel povero ragazzo distrutto come se da quel gesto dipendesse il mondo intero. Perché Roger faceva parte del suo mondo, e non aveva alcuna intenzione di lasciarlo crollare.
- Piangi, Rog. Piangi. – continuò ad accarezzargli i capelli biondi, dolcemente. Sua madre gli diceva sempre che piangere, a volte, era la migliore medicina. Era come gridare, sfogarsi, lasciar andare tutto. Buttare via almeno un po’ del peso che si ha dentro.
“Hai bisogno di piangere, Bri. Piangere vuol dire mostrarsi fragili, ma anche incredibilmente forti. Un uomo è tale solo mostrando le proprie debolezze.”, gli disse Ruth, un giorno, quando lui proprio non voleva sapere di mandar giù una sola lacrima, nonostante quel nodo alla gola fosse più stretto di qualunque altro.
Brian accarezzò la schiena di Roger, che singhiozzava e gli stringeva forte i vestiti
- E’ tutto finito, Bri. – lo sentì sussurrare. – Non la rivedrò mai più.
Lo strinse più forte. Sapeva cosa significasse perdere una persona, lo aveva provato sulla propria pelle. Non disse niente, gli lasciò solo un piccolo bacio in cima alla testa.
- Mi sono comportato come uno stronzo. – Roger tirò su col naso. – Sei l’unica persona che non mi ha fatto del male, eppure ti ho trattato come se…
Brian tirò su il viso di Roger, chiudendogli le guance tra le mani. Gli lasciò un tenero, dolce bacio sulle labbra sottili, sorridendogli poi dolcemente. – Non sei uno stronzo. E non devi pensare a come tu mi abbia trattato. Pensa solo a come tratterai te stesso.
Il ragazzo biondo sembrò non capire, al che il chitarrista gli sfiorò una guancia con il pollice. – Prometti a te stesso che ti rialzerai. Fallo per Clare, per me, per John, per Freddie. Ma soprattutto per te. – Brian sorrise. – Dopotutto, sei Roger Meddows Taylor. Sei forte. Talmente forte da poter affrontare qualunque cosa. Mi sbaglio?
Vide gli occhi del suo ragazzo luccicare. Non seppe dire se brillassero per le lacrime o per qualcos’altro. Lo vide sorridere per la prima volta dopo giorni. – Tu sei Brian May. Non sbagli mai.
Brian sorrise. Lo baciò di nuovo. – E allora, me lo prometti? Te lo prometti?
Brian guardò il batterista abbassare lo sguardo e buttar fuori l’aria. Gli accarezzò le dita. – Dai, Rog. Ne sono sicuro.
- Bri, ma come faccio? – il ragazzo lasciò cadere altre lacrime. – Ormai… Ormai non ho più una famiglia. Quell’uomo non riuscirò mai a chiamarlo padre. Mamma non la vedo da anni, dopo che l’hanno chiusa in clinica. Clare era tutto ciò che rimaneva della mia famiglia e ora… - strinse gli occhi, i denti, i pugni. – E ora non c’è più, Bri.
- Lo so. Lo so, Rog. Ma non per questo non devi permetterti di riprenderti. Io credo in te, tutti credono in te. – sorrise, baciandolo. – E infondo, se smetti di suonare, i Queen dove finiscono? Chi sono i Queen, senza la tua batteria? Senza la tua energia, la tua vitalità, anche la tua rabbia. – rise. – E senza i tuoi acuti. Per carità, non dimentichiamoci dei tuoi acuti.
Gli si sciolse il cuore quando vide Roger sorridere, per la seconda volta. – Saremo noi la tua famiglia. Siamo la tua famiglia.
- Se John è il figlio prediletto non mi va bene.
Brian rise. Era bello vedere che il ragazzo riuscisse a scherzare anche solo un po’. – Ah, dai per scontato che tu e John siate i bambini? Io la mamma casalinga non la faccio.
- Sinceramente non ti ci vedo. Diventeresti ancora più esaurito.
- Ah, perché tu Freddie ai fornelli riesci a immaginarlo?
- Meglio che immaginarlo tornare da lavoro in giacca e cravatta.
Il chitarrista baciò dolcemente il suo ragazzo. Lo guardò negli occhi e gli accarezzò gli zigomi. – Promesso?
Il ragazzo biondo sospirò. Appoggiò la testa sulla spalla del maggiore, chiudendo gli occhi. – Credo di sì.
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You don't know what it means to me. (Maylor)
Fanfiction(Brian May/Roger Taylor) ... 1969/1970. ... Dal primo capitolo: - Roger, ti sei mai preoccupato per i sentimenti di qualcuno che non sia Tim? - lo interruppe Brian, calmo. Tranquillo, anche troppo, ma il suo cuore era sprofondato. Non riusciva più a...