Don't take it away from me

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1981.
 

Roger sospirò quando la bambina nella culla scoppiò nuovamente a piangere. Erano due notti che il povero ragazzo non aveva chiuso occhio per far prendere sonno alla piccola Louisa, nuova arrivata nella casa in cui viveva, da quattro anni, con Brian. Aveva la testa che scoppiava e grossi aloni scuri gli circondavano gli occhi azzurri. Si chinò a prendere la bimba in braccio, facendole appoggiare la testolina sulla sua spalla e accarezzandole amorevolmente la schiena.
- Su, Louisa, fai dormire papà. – sussurrò, esausto. Lanciò un’occhiata a Felix, il secondo arrivato dopo James, che dormiva tranquillo nella sua culla. Sospirò e si passò una mano sul viso.
- Ehi, Papà Orso. Ancora sveglio? – la voce di suo marito gli giunse alle orecchie e Roger si voltò a guardarlo. Appoggiato all’uscio, Brian sorrideva, intenerito nel vedere il biondo cullare dolcemente la bambina che proprio non voleva saperne di dormire.
- Mi sta facendo dannare. Felix e James non erano così, a sei mesi! – sbuffò il povero Roger. Brian rise, avvicinandosi e prendendo tra le braccia la bambina.
- Non vogliamo proprio dormire, eh? – Brian lasciò un bacio sul naso di Louisa, facendola smettere di piangere. Roger spalancò gli occhi. – Ma non è possibile!
Il riccio fece un sorrisetto soddisfatto.
- Non è così che funziona. Perché quando io la cullo, la coccolo e le racconto le fiabe lei frigna, mentre a te basta darle un bacino che diventa un angelo?
- Perché io le piaccio tanto.
- Giuro che se si addormenta uccido sia te che lei.
- Roger, ma che insegnamenti dai a tua figlia? I bambini sono come delle spugne, vuoi che la tua piccola Louisa diventi violenta?
- No, è lei che fa diventare me violento.
Brian alzò gli occhi al cielo, poi si avvicinò a suo marito, lasciandogli un piccolo bacio a fior di labbra. – Vai a riposarti, domani mattina non ho alcuna voglia di vederti di nuovo come uno schizzato che potrebbe dar fuoco alla mia casa.
- Quanto mi stai sul cazzo.
Brian strinse la bambina che teneva in braccio. – Non deviarmi Louisa, lo hai già fatto con James.
- Ma non è vero.
- Devo ricordarti cos’ha detto al suo compagno di classe, la settimana scorsa?
Roger finse di asciugarsi una lacrima, portando una mano sul cuore. – Il mio bambino.
- Alle medie diventerà un bullo e riceveremo un richiamo dai professori ogni giorno.
- Sì, in quel caso gli spaccherò i denti. – Brian gli lanciò un’occhiataccia, poi vide Roger aggrottare la fronte. - A proposito di James. Dov’è?
- Nel nostro letto.
- Sei un padre irresponsabile.
- Intanto Louisa sta dormendo.
Roger respirò profondamente, stringendosi i capelli tra le dita ed emettendo un sospiro frustrato.
 

 
Brian aveva il cuore in gola. Stava letteralmente per morire dalla paura e sentiva di star rischiando l’infarto. Aveva deciso da tempo di chiedere a Roger quella fatidica, spaventosa domanda, ma solo in quel momento stava trovando il coraggio di farlo. Il concerto ad Hyde Park era andato magnificamente. Forse il pubblico più grande che avessero mai avuto, che aveva cantato con loro e li aveva resi orgogliosi e fieri come nessun’altro aveva mai fatto. Quella serata era stata forse la migliore che i Queen avessero avuto modo di vivere. 
Ma in quel momento, proprio dietro al palco, Brian non sapeva se essere felice o completamente terrorizzato. Roger stava mettendo a posto la batteria, John e Freddie erano andati a cambiarsi e lui, come un cretino, se ne stava lì in piedi, tremante, stringendo tra le mani la scatolina di velluto. Vide il suo ragazzo passare proprio davanti a lui. 
- R-Rog! – esclamò, con un filo di voce. Vide il biondo girarsi verso di lui, guardarlo facendogli chiudere la gola. Roger era sudato dalla testa ai piedi, nel suo largo camicione, coi capelli increspati dall’umido. – Che?
- Potresti… - la voce gli uscì appena. Si schiarì la gola, imbarazzato. – Potresti venire un secondo?
Roger aggrottò la fronte. Solitamente, la prima cosa che Brian faceva dopo un concerto, era darsi una lavata, cambiarsi e mettere a posto la sua chitarra. E invece la preziosa Red Special era appoggiata dietro di lui e il suo ragazzo aveva i ricci appiccicati alla fronte per il sudore. Si avvicinò comunque a Brian e lo squadrò dalla testa ai piedi. – Che cazzo ti tremi?
Il ragazzo respirò profondamente. Riprese coraggio, mise la scatolina in tasca e si avvicinò a Roger, prendendogli le mani e accarezzandogliele. Il cuore sembrava dovergli esplodere nelle costole, probabilmente non si era mai sentito tanto nervoso e spaventato in vita sua. Però voleva farlo. Doveva farlo. 
Ripensò a tutto ciò che avevano passato. A come si erano conosciuti, a come erano riusciti, dopo un periodo talmente buio da voler dimenticare, ad aggiustare tutto quanto con un solo bacio, a tutti i sorrisi che aveva visto fare da Roger mentre lo guardava e a quelli che lui aveva sfoggiato stando con il suo ragazzo. 
Guardando quei grandi occhi azzurri ricordò quante volte li aveva visti brillare. 
Ricordò quanto aveva lottato per tirarlo su dopo la morte della sorella e dopo notti insonni, ricordò le dolci parole che si erano sempre scambiati in quei dolcissimi, magnifici tre anni. 
Ricordò quanto ne valesse la pena. 
E quindi trasse un respiro profondo, e sorrise davanti allo sguardo confuso del suo ragazzo, stringendogli più forte le mani. 
- Roger, amore. – riuscì finalmente a tirar fuori tutta la voce che aveva. – Forse potrò sembrarti pazzo, forse un po’ folle. Potrò sembrarti un idiota innamorato, forse ti verrà da ridere nell’ascoltarmi. Però voglio che tu sappia che questi tre anni, senza di te, non sarebbero stati così dolci, rumorosi, turbolenti, divertenti. Così pieni di musica, di parole così belle che mai mi sarei aspettato di sentire. Di note dolci e aspre, di risate, pianti, urla, sorrisi. E ho sempre pensato che tu fossi proprio così: un mix di emozioni forti, vulcaniche, forse eccessive. – vide Roger sorridere. – E sono arrivato alla conclusione più bella della mia vita, che forse un po’ mi spaventa, ma infondo non me ne importa. – sorrise, accarezzando una guancia chiara del suo ragazzo. – Non me ne importa perché so che è qualcosa di tanto prezioso, di tanto bello da valerne la pena del tutto. 
Si inginocchiò, con le mani sfiorò la scatolina che aveva in tasca, mentre guardava Roger sorridere divertito. 
- Tu sei tutto quello che voglio e vorrei avere. Sei una nottata all’Opera e una giornata alle corse. Ciò che vorrei vedere da quando mi sveglio a quando mi addormento. 
Tirò fuori il prezioso oggetto. – Per questo, Roger Meddows Taylor, - sollevò il coperchio con le dita tremanti. – Vorresti sposarmi?
Roger sentì il cuore battere forte nel petto, guardò gli occhi scuri di Brian, i suoi capelli ricci e quel sorriso che, anche lui, avrebbe voluto vedere dal primo all’ultimo istante della giornata. Sorrise. 
Accarezzò i capelli scuri di Brian, rise. – Credo che non avresti potuto scegliere momento migliore di questo, entrambi sudati fradici e puzzolenti, dopo un concerto.
Brian batté le ciglia. – Ho… Sbagliato?
Roger sorrise, inginocchiandosi davanti al suo ragazzo e passandogli una mano chiara sulla guancia. – Certo che voglio.
 

 
Roger si inginocchiò davanti alla lapide chiara, sul prato. Prese un respiro profondo, guardando la fotografia di sua sorella, provando ciò che aveva sempre sentito nel cuore ogni volta che la vedeva.
Clare sorrideva, con un fiore tra i capelli biondi e gli occhi azzurri luccicanti. Lo guardava, come a volergli sorridere per davvero. Come a volerlo salutare, ancora e ancora. E lui quasi sentiva quella mano sottile che quando prendeva quella di Roger sembrava così piccolina, in confronto, appoggiarsi sulla sua spalla. Roger avrebbe voluto anche solo vederla, quella mano. Sfiorarla, tenerla tra le sue come faceva quando, durante la notte, Clare aveva gli incubi. Gli mancava ogni singola cosa. Gli mancava darle fastidio, gli mancava essere infastidito. Gli mancavano i litigi e i giochi che facevano da bambini, gli mancava quella voce che gli diceva di volergli bene, gli mancava vederla nascondersi quando lui suonava la batteria, per non infastidirlo.
Clare, la sua dolce Clarie.
Chissà se poteva vederlo. Chissà se anche a lei mancava.
Andare lì, in quel cimitero, a Roger faceva provare sensazioni strane, contrastanti. Inizialmente non riusciva nemmeno a guardarla, quella lapide.
Clare Meddows-Taylor. 1953-1973. Vent’anni.
Ogni volta, piangeva, quasi urlava. Brian gli era sempre stato vicino, in quei momenti. Lo stringeva forte mentre lui singhiozzava. Non si capacitava di nulla. Non capiva, non voleva capire. Anno dopo anno, la domanda che si faceva era sempre la stessa: come si può finire una vita tanto piccola, nel pieno della giovinezza, che niente aveva fatto di male? Non lo capiva e forse non lo avrebbe mai capito.
Però, man mano che gli anni passavano, che lui cresceva, guardando quella lapide si sentiva sempre leggermente più forte. Piangeva ogni volta, ma dopo quasi dieci anni aveva abbassato la testa, aveva accettato quel destino. Non del tutto, ma si era rassegnato.
Guardava indietro, guardava il Roger ventiquattrenne, disperato, debole, stanco, e si rendeva coto dei passi avanti che aveva fatto. Per merito di Brian, dei Queen, dei bambini bellissimi che aveva adottato, ma soprattutto suo, che ce l’aveva fatta. Aveva promesso che si sarebbe rialzato, e lo aveva fatto. Con dignità, passando in mezzo a tanto dolore che lo aveva tuttavia fatto crescere.
Respirò profondamente, appoggiando i papaveri che aveva portato per Clare sull’erba, davanti alla piccola lapide. Deglutì, sedendosi e distogliendo lo sguardo dalla foto di Clare.
- Ciao, Clarie. Sono di nuovo qui, dopo un po’ di tempo. – fece un altro profondo respiro, asciugandosi una lacrima.
– Mi dispiace non essere venuto, in questi giorni. Ma, sai, io e Bri abbiamo avuto davvero tanto da fare. – sorrise, tornando a puntare gli occhi azzurri sulla foto della sorella.
– Da quando ci siamo sposati, abbiamo sempre voluto prenderci cura di qualche bestiolina. E così abbiamo fatto. Te li ricordi, James e Felix? Non ne avevamo abbastanza, di rigurgiti da pulire e di pannolini da cambiare. Così abbiamo adottato una bimba. – accarezzò i fiori che aveva ai piedi, sospirando.
– Aveva già un nome. Louisa. Ma le abbiamo dato un secondo nome. Indovina? – fece una piccola pausa, come ad aspettare che la ragazza potesse davvero rispondergli.
- Clare. Come te. E’ una bambina bellissima, solo che mi dà proprio il tormento. Non vuole dormire quando ci sono io, e invece con le manine fatate di Brian crolla come un sasso. Credo sia già un po’ viziata da suo padre. – sorrise nuovamente, poi sospirò. – Sai, Clarie, ti penso ogni giorno. Mi manca l’apprensione che usavi nei miei confronti quando facevo qualcosa di stupido, come se fossi tu la maggiore. Mi manca giocare con te e mi mancano le nostre chiacchierate che continuavano fino a notte fonda. Vorrei tanto vederti ai miei concerti. Eri la mia prima vera Groupie. – rise, immergendosi nei ricordi. Una volta, Clare aveva addirittura spintonato una ragazza che ci stava provando con lui.  – A proposito. Ho fatto uscire un pezzo da solista. Si chiama “Future Management”. Forse ti sarebbe piaciuta. So che non ti piacevano molto le canzoni che scrivevo, dicevi che fossero aggressive e che non avessero senso. Però sono migliorato! Te la ricordi, “Drowse”? Te la cantai, una volta. Non ho mai potuto sapere se ti fosse piaciuta o meno, non hai potuto dirmelo. Ma spero di sì. Non voglio mica deluderti, Clarie.
Roger si fermò per un attimo. Si passò un dito sullo zigomo, asciugando l’ennesima lacrima. Strinse i fiori che aveva tra le mani, deglutì. – Se riesci a sentirmi, Clarie, io… Io voglio solo dirti che ti voglio bene. Tanto bene. Te ne vorrò sempre e non smetterò mai di farlo. Però mi manchi davvero tanto. Mi manchi da quel giorno. E potrei anche essere più forte di prima, ma ancora non riesco a capacitarmi del fatto che tu sia andata via. Spero che tu ora stia bene. Perché avevi tanti sogni, che non meritavano di morire. Tu, non meritavi di morire. – la voce gli si incrinò. Le lacrime scendevano copiose, dolorose. Facevano male solo a sentirle. – Vorrei vederti. Oh, Clare, quanto lo vorrei. Vorrei abbracciarti forte, ridere con te e proteggerti da ogni cosa. Se solo ti avessi protetta…
Roger si alzò in piedi, sfiorò con la mano la fotografia della sorella. – Ti voglio bene, Clarie.
Si voltò, sotto la pioggia. Senza un ombrello, indifeso, infreddolito. Con una malinconia nel cuore e nella mente che gli spezzava piano piano il cuore. Con il sorriso di Clare negli occhi, la sua voce nelle orecchie. Con il pensiero che una volta tornato a casa, ad asciugare quelle lacrime ci sarebbero state le voci dei bambini e le carezze di Brian.
 

 
Brian si svegliò di soprassalto, disturbato dal forte temporale che sfuriava fuori dalla finestra. Allungò una mano verso la sua destra, dove solitamente dormiva Roger. Però Roger non c’era. Si tirò a sedere, guardandosi intorno, alla ricerca del ragazzo.
- Rog. – sussurrò, assonnato. Non ricevette risposta. 
- Roger? – riprovò, un po’ più forte. Niente.
Forse era andato in bagno. 
Aspettò. Sarebbe tornato. 
Aspettò.
Aspettò.
Aspettò. 
Si alzò dal letto, deglutì. Lo cercò per tutto il monolocale e non lo trovò. Fece tutto il possibile per non svegliare Freddie e John, mentre più camminava più sentiva l’ansia crescere. 
- Roger? – chiamò di nuovo. Non sentì nessuna risposta, di nuovo. Quando trovò il bagno bussò alla porta, con il cuore ormai in gola e una sensazione che ben poco aveva di piacevole o rassicurante. Girò la maniglia, lentamente. E fu in quel momento che sentì il mondo crollargli addosso. 
Venne investito da quell’odore ferroso che mai avrebbe voluto sentire, talmente forte da farlo tossire. Le piastrelle da bianche erano diventate rosse, tinte di quel liquido che non avrebbe dovuto essere lì, per terra, ma in quel corpo così fragile e pallido che era accasciato sul muro, mollemente abbandonato sul marmo. 
Per un attimo si fermò tutto. Brian non ci vedeva nemmeno più. Gli veniva da vomitare e non riusciva a muoversi. Semplicemente non credeva a ciò che aveva davanti agli occhi. 
Urlò, d’istinto.
Corse vicino al ragazzo steso per terra in una posizione quasi innaturale, incurante del sangue che gli macchiava i vestiti. Tirò su Roger appoggiando una mano dietro a quella schiena spigolosa, gli afferrò i polsi, dai quali ancora il sangue fluiva senza fermarsi. Si sforzò a ragionare lucidamente. Afferrò le bende che avevano posto negli scaffali, disinfettando più velocemente che poteva i polsi sottili del ragazzo, avvolgendoci attorno le bianche bende, che si tinsero immediatamente di rosso. 
Roger aveva i capelli sporchi del proprio sangue, gli occhi sigillati. Per quanto era pallido, Brian riusciva quasi a vedere le sue vene sporgere dalla fronte, dalle palpebre chiuse, dal collo. 
- Roger, Roger. – sussurrò, le lacrime che non smettevano di scendere. Roger glielo aveva promesso. Gli aveva detto che si sarebbe rialzato. Che ce l’avrebbe fatta. 
Gli aveva mentito. 
Perché era lì, steso su quel pavimento, così gelido e pallido? Perché non dormiva tranquillo nel suo letto?
Perché lo stava lasciando da solo?
 Avvicinò l’orecchio al suo petto, all’altezza del cuore. 
Battiti deboli, stanchi, lenti. Esausti. Ma c’erano. 
Il chitarrista piangeva, era disperato, non sapeva cosa fare. Ma trovò la forza per afferrare il corpo fragile e inerme del suo ragazzo, della persona che amava. Trovò la forza per riuscire a salvarlo in tempo. 
 
Quando Roger aprì gli occhi, non riconobbe il luogo in cui si trovava. C’era una grande finestra alla sua sinistra e una piccola scrivania grigia davanti a lui. Sentiva un rumore fastidioso nelle orecchie, intermittente, stridulo e acuto. Si sentiva intorpidito e confuso, non ricordava assolutamente nulla. 
Dov’era? 
Non era a casa. Nemmeno in quella che condivideva con Brian, John e Freddie. 
Sentiva il profumo di Brian intorno a lui. Brian era lì. 
Riconobbe quei ricci scuri, proprio davanti a lui. Lo sguardo del ragazzo era rivolto vero la finestra, Roger riusciva a vedere lacrime scendere da quegli occhi color nocciola. Perché Brian piangeva? Perché il suo Brian piangeva? 
Puntò lo sguardo sulle sue braccia. Erano entrambe bendate, dal polso fino al gomito. Sul suo petto erano attaccate delle ventose, da cui sporgevano degli spessi fili che terminavano attaccati ad un macchinario, sul cui monitor poteva scorgere delle linee chiare e spezzate. Quel rumore che sentiva era il ritmo del suo cuore.
E forse ricordava.
Ricordava la notte passata a piangere, ricordava di essersi alzato dal letto, di aver baciato Brian, di aver salutato John e Freddie con una carezza, ricordava di aver pianto. Tanto, tantissimo. Ricordava la paura che provava, ricordava il pensiero di Clare.
Clare. Come gli mancava, Clare. 
Ricordava di aver chiuso la porta alle proprie spalla, di aver pensato a Clare. Avrebbe voluto tornare da Clare.
Ricordava di aver trovato il rasoio e averne preso la lama.
Non ricordava più nulla. 
Cos’aveva fatto? Era ancora vivo. Ma non era quello che avrebbe voluto. Lui voleva tornare da Clare. Cosa ci faceva, lì?
Puntò lo sguardo verso Brian, di nuovo. 
– Bri. – sussurrò. Non riconosceva nemmeno più la sua voce. Era debole, fragile, flebile. Brian non gli rispondeva, aveva lo sguardo putato su quella maledetta finestra.
- Brian. 
- Me lo avevi promesso.
Il cuore di Roger quasi perse un battito. Quel cuore che avrebbe potuto arrestarsi, morire. Appoggiò una mano su quella di Brian. 
- Tu avevi promesso che non… - lo vide girarsi, finalmente. Il viso di Brian era carico di dolore, le lacrime scendevano lentamente da quel viso distrutto. Lo stava facendo soffrire. Roger stava facendo soffrire Brian. 
- Bri, io…
- Hai idea di quanto tu mi abbia fatto male? – quella frase era come un gemito disperato, un pianto. – Hai idea del fatto che tu mi abbia praticamente ucciso, Roger?
Roger non ebbe la forza di rispondere. Si limitò a stringere la mano del suo ragazzo, nonostante i polsi gli dolessero.
- Stavi morendo, tu… Tu stavi morendo. Te ne stavi andando via. Mi stavi lasciando da solo. 
Brian era completamente distrutto. Era distrutto perché Roger non doveva essere in quel letto d’ospedale. Perché Roger doveva essere a casa. Perché Roger doveva essere felice. Perché Roger non doveva soffrire. 
- Perché, Roger? Perché? – probabilmente sapeva già la risposta. 
- Non voglio vivere senza Clare. 
- No, cazzo, no! – le lacrime scendevano come pioggia. – Pensi che Clare sia felice di vederti così? Pensi che stia bene? La fai soffrire come stai soffrendo tu, Roger. E soffro anche io. E non so con quale forza io sia riuscito a portarti qui, a proteggerti.
- Voglio tornare da lei.
- Basta, Roger. – non suonava come un rimprovero. Più come una preghiera. – Basta. Basta. 
- Perché? – urlò Roger, con tutta la forza che aveva. Era arrabbiato.
Arrabbiato perché Brian gli aveva impedito di raggiungere Clare.  – Perché mi hai salvato? Ti rendi conto di quello che hai fatto? Hai rovinato tutto.
- Pensavi che ti avrei lasciato lì? – Brian strinse forte le mani di Roger, lo guardò negli occhi. – Pensavi che avrei lasciato che l’unica persona che abbia mai amato morisse?
- Egoista.
- No. No, tu sei un egoista. Io ti ho salvato la vita quando tu te la stavi togliendo.
- Non ne avevi il diritto.
- Ce l’avevo tutto, il diritto. 
- Egoista. – il cuore di Roger accelerò. 
- Pensa a come cazzo mi sarei sento, se tu fossi andato via. Probabilmente avrei fatto ciò che hai fatto tu.
- Egoista, egoista, egoista! – il più piccolo si liberò dalla stretta che era sulle sue mani, si dimenò quando Brian tentò di abbracciarlo. Scoppiò a piangere, a urlare, incurante di chi avrebbe potuto sentirlo. Sentì le labbra del suo ragazzo appoggiarsi sulle proprie e sentì le guance bagnarsi di lacrime che non erano le sue. Vide Brian staccare, appoggiargli le mani sul viso e guardarlo negli occhi. Piangeva quanto lui, forse più di lui. Roger percepì le dita di Brian accarezzargli gli zigomi e restò immobile, zitto, a guardarlo. 
- Hai idea di come mi sono sentito? Ti ho visto lì, così piccolo, così fragile che sembravi fatto di carta. Ho avuto paura di non poter mai più guardare i tuoi occhi, di non poterti più abbracciare. – il petto del riccio era scosso da singhiozzi insistenti e quasi dolorosi. – Mi avevi promesso di essere forte, Roger. E io ci avevo creduto. 
Il biondo sentì la testa di Brian crollare sul suo ventre, mentre le spalle scosse dai singhiozzi vibravano. Sentì la mano del chitarrista stringere la sua, forte, come a volerlo pregare di non andare via. Gli accarezzò i capelli ricci. Capì tutto quel dolore in un momento in cui proprio non riusciva ad essere empatico. E sentì il peso di tutto quel dolore sulle spalle. Se lo aveva salvato, era perché a lui ci teneva. Tanto. E probabilmente non avrebbe voluto vederlo andare via. Passò la mano tra quei morbidi ricci, sentendo quei singhiozzi diminuire. 
- Grazie, Bri.
 

You don't know what it means to me. (Maylor)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora