When I grow older, I will be there at your side

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La schiena di Roger finì pesantemente contro il muro mentre il ragazzo che lo teneva stretto tratteneva le sue gambe sottili attorno ai propri fianchi, baciandolo sempre con più irruenza e lasciando che il batterista avvolgesse le braccia attorno al suo collo. Robert si staccava di tanto in tanto, giusto il tempo di guardare gli occhi azzurri del ragazzo che da anni aveva desiderato di stringere, accarezzare, baciare.
Roger era più bello di prima. Più bello dell’ultima volta, meno impacciato. Erano passati tre anni da quando lo aveva visto andar via con tanta irruenza da casa sua, quasi scappando, e casualmente aveva avuto l’occasione e la fortuna di rivederlo lì dentro, in quel pietoso pub stracolmo di idioti, a ventuno e ventidue anni. Ma in mezzo a tutte quelle persone aveva visto lui. In mezzo a tutti quegli sguardi anonimi aveva notato gli occhi celesti di Roger. Era cambiato. La statura era la stessa, ma la sua figura era più magra, esile come una foglia. I capelli erano lunghi e più chiari, lo sguardo più triste. A vederlo da vicino, aveva osservato gli aloni neri che gli circondavano gli occhi. 
Non aveva avuto nemmeno il tempo di parlare, di chiedergli cosa gli fosse successo per essersi ridotto in quel modo, che aveva visto il ragazzo fiondarsi sulle sue labbra di colpo, senza un motivo. Si era staccato, gli aveva accarezzato i capelli biondi. 
“Sei ubriaco, non sai quello che stai facendo” gli aveva detto. Per proteggerlo, per non farlo star male una volta sobrio. Però Roger lo aveva baciato di nuovo, e in quel momento si trovavano in un bagno, premuti l’uno contro l’altro.
Restò per un attimo a fissare, perso e incantato, quegli zaffiri che erano i suoi occhi. Lucidi, grandi, infantili. Meravigliosi. Appoggiò di nuovo le labbra su quelle del ragazzo, sfiorandogli la lingua con la propria. Roger passò una mano sul petto del maggiore e accarezzò la pelle olivastra, provocando dolci ed eccitati brividi sul corpo di Robert.
Il batterista si sfilò velocemente la maglietta, lasciando il petto magro esposto. Robert fece scorrere lo sguardo sulla pelle chiara. Le costole in evidenza, le clavicole sporgenti.  Notò segni rossi evidenti in contrasto con il candore della carnagione di Roger, lividi violacei sparsi ovunque. Restò senza fiato, completamente. Gli accarezzò una guancia e gli scostò una ciocca bionda dalla fronte, notando solo in quel momento la ferita che gli attraversava un sopracciglio. 
-Rog… - sussurrò. Quando il ragazzo rischiò di cadere tornò a stringergli le gambe.  
- Che stai aspettando? – ansimò il minore. – Facciamolo. 
- Facciamo cosa?
Roger abbassò le mani tremanti sulla cerniera dei jeans del ragazzo, sbottonandoli, nonostante da quella posizione fosse tremendamente difficile. Quando Robert capì il suo gesto ricominciò a baciarlo, facendo scorrere le proprie mani sul cavallo dei pantaloni del batterista. Gli baciò il collo, le spalle, le clavicole. 
Solo che, appena cominciò a slacciargli la lampo, si rese conto di quanto grave fosse ciò che stava facendo. Roger era ubriaco e, a giudicare da quello che Robert vedeva, stava anche soffrendo. Non poteva, nonostante lo desiderasse. Più di qualunque altra cosa.
Era tutto così sbagliato. Non era come avrebbe voluto che fosse, forse a Roger non importava assolutamente nulla di lui e lo stato di ebbrezza lo confondeva, lo annebbiava. Forse non era nemmeno consapevole di ciò che stava facendo e il giorno dopo non avrebbe ricordato assolutamente nulla. Non era corretto nei confronti del ragazzo, non era… Giusto. E Robert avrebbe voluto, sì. Avrebbe voluto tanto fare l’amore con lui, da anni, e in quel momento ne aveva l’occasione. Ma non sarebbe stato amore. Sarebbe stato solo inutile sesso tra un ragazzo sbronzo e uno innamorato. 
Era consapevole che Roger non provasse assolutamente le emozioni che attraversavano lui, e proprio perché Robert lo amava non osò sfiorarlo. 
Lo appoggiò sul pavimento, gli prese la testa tra le mani e gli si avvicinò fino a sfiorargli il naso con il proprio. – Ti amo, Rog. E proprio per questo non posso farlo. 
 

 
Brian si sentiva perso. Sperduto, confuso, come un pesce fuor d’acqua. E non da pochi giorni. Da due o tre anni, che in realtà gli sembravano secoli e che non vedeva l’ora che finissero. Il 1972 era stato un disastro come gli anni precedenti. Sì, la band andava discretamente bene, avevano trovato il bassista e si esibivano nei college di tanto in tanto, ma a Brian mancava qualcosa in un modo che era ormai diventato doloroso, tanto da non permettergli di prendere sonno, da fargli perdere l’appetito e, addirittura, la voglia di suonare. E lui sapeva alla perfezione di cosa si trattasse. Aveva bisogno di Roger. Gli mancava il suo migliore amico, il suo complice, lui che si prendeva tutta la colpa per qualcosa che nemmeno aveva fatto solo e soltanto per proteggere Brian. 
Gli mancava qualsiasi cosa di Roger. Il suo infantilismo contrapposto alla maturità che dimostrava di avere in tantissimi casi, la sua curiosità, la sua intelligenza, la schiettezza e quel cuore così grande e gentile da poter contenere il mondo e tutta la negatività di esso. Negatività che Roger trasformava in ottimismo e animo, nonostante la vita lo prendesse a pugni ogni giorno, in modi sempre peggiori. Gli mancavano i suoi sorrisi e la limpidezza delle sue risate genuine, a volte anche il suo senso dell’umorismo scontato e immaturo.
Era così diverso da lui ma entrambi sapevano che squadra forte e inseparabile che erano. O meglio, che erano stati. 
E Brian ancora cercava una spiegazione che andasse oltre la voglia di Roger di allontanarsi per uccidere i sentimenti non ricambiati nei suoi confronti. Brian non avrebbe mai voluto che un’amicizia così forte e importante finisse. Soprattutto perché non era più sicuro della sua prima ipotesi, che si era dimostrata solida per tutto quel tempo. 
Si stava rendendo conto delle sensazioni che provava quando si trovava vicino a Roger non potendolo sfiorare, abbracciare, stringere a sé senza sentirsi colpevole. Quando lo vedeva sorridere i suoi sentimenti erano ben diversi da quelli che avrebbe provato se per lui avesse nutrito semplice e normale amicizia. 
E quel giorno se ne stava accorgendo più del solito.
- Tanti auguri a te, tanti auguri a te! – la voce cristallina di Freddie risuonò per tutta la stanza mentre, dietro di lui, John sorrideva con una torta tra le mani. – Tanti auguri a Roger, tanti auguri a te!
Il sorriso che distese le labbra di Roger fece battere più forte il cuore del chitarrista. Gli occhi azzurri si illuminarono e due piccole fossette incresparono le guance chiare del ragazzo. Brian deglutì, spostò lo sguardo verso la torta che John portava tra le mani e la osservò meglio. Era una semplice cheesecake ai frutti di bosco, su cui erano infilate due candeline, la prima delle quali rappresentante il numero due e la seconda il tre. Il più piccolo tra i quattro appoggiò il piatto di ceramica davanti agli occhi di Roger, seduto con i gomiti sopra al minuscolo tavolo di legno. 
Freddie si allungò verso la torta, accendendo le candeline con un piccolo fiammifero.
- Devo fidarmi? Non è che la torta l’ha fatta Freddie? – rise il batterista. 
Il maggiore sbuffò. – No, non l’ho fatta io. L’ha fatta Clare. 
Roger guardò la sorella, seduta accanto a Brian sul piccolo divano di fronte a lui. Spalancò gli occhi: – Peggio ancora!
A Brian scappò un sorriso nel vedere la ragazza sollevare il dito medio in direzione del fratello. Si schiarì leggermente la voce. – Su, è la tua torta. Mangiala!
- No. Prima deve spegnere le candeline ed esprimere un desiderio. – obiettò Clare.
- E le orecchie non gliele tiriamo? – John si sistemò alle spalle di Roger, spostandogli i capelli biondi dal viso, facendogli storcere il naso. – Quanti anni hai, Deaky? 
- So quanti anni hai tu. E ora te lo dimostro. – il bassista iniziò a pizzicare le orecchie del biondo, mentre le voci degli altri tre ragazzi rimasti nella stanza contavano in coro, fino ad arrivare a ventitré.
- Ora esprimi questo desiderio! – John abbassò le mani sulle spalle del festeggiato e gliele strinse. 
Il batterista fece un respiro profondo e si allungò verso le candeline. Soffiò, ad occhi chiusi, e quando li riaprì li puntò verso quelli di Brian. Lo vide sorridere teneramente, addolcito da quella scena quasi bambinesca. E si permise, per una volta, di ricambiare quello sguardo con un sorriso ancora più dolce. 
 

 
Per la seconda volta nella sua vita, Brian si ritrovò a dover aprire la porta di casa a notte fonda, ritrovandosi anche davanti la stessa persona che aveva visto quand’era successo in precedenza. 
C’erano delle differenze, però. La prima era l’abitazione, che questa volta era la casa che lui, Roger, Freddie e John condividevano. La seconda era che la persona che Brian aveva davanti era ridotta peggio di uno straccio: Roger aveva un taglio che gli attraversava un sopracciglio, del sangue secco sul labbro inferiore e un brutto livido sullo zigomo sinistro. Gli occhi azzurri erano stanchi e arrossati.
E queste erano solo le condizioni del suo viso. 
Aveva i vestiti sporchi di sangue rappreso, ridotti a brandelli, che lasciavano intravedere il corpo pallido ricoperto di lividi e graffi.
Brian sentì il cuore fermarsi per un secondo.
“No, ditemi che non è vero”, pensò nel vedere il ragazzo ridotto in quello stato. Lo prese delicatamente dal polso e lo trascinò in casa, chiudendo la porta leggermente per non svegliare gli altri due ragazzi addormentati. 
Lo accompagnò sul divano e si sedette accanto a lui. Non disse nulla, rivolse lo sguardo verso di lui e restò ad osservarlo per riuscire a captare qualcosa. Qualche emozione, qualcosa di anche vagamente umano in quello sguardo dolorosamente sbagliato, apatico, che su Roger non aveva mai visto. Aspettò che il batterista puntasse gli occhi azzurri su di lui, invano. Gli accarezzò i capelli e non vide alcuna reazione da parte del minore. Stava iniziando a preoccuparsi ancor più seriamente. 
- Che ti è successo? 
Sapeva già, Brian, quale sarebbe stata la risposta. O almeno, lo immaginava. Non ottenne nulla. Non un sussurro, non una parola. Strinse i denti e respirò profondamente.
- Che è successo? – riprovò. 
- Che cazzo può essere successo secondo te? – un mormorio, un sussurro talmente debole e fragile che Brian riuscì appena a distinguere. 
Il chitarrista batté appena le palpebre. Si girò a guardarlo di nuovo e lo vide tirare su col naso. – Lo ha fatto ancora, è così?
Vide Roger fare una smorfia. Era la prima espressione che Brian riusciva a vedere su quel viso quella sera. Lo vide sbuffare, scuotere la testa. – Ma perché cazzo dovrei venire a raccontarlo a te?
Il maggiore aggrottò la fronte. Sapeva che Roger fosse ancora arrabbiato con lui, gli dava anche ragione, ma stava cercando in ogni modo di stargli vicino, sapendo quanto stesse soffrendo. Eppure Roger sembrava non interessarsene minimamente. Sospirò. – Perché no?
La domanda fece rivolgere lo sguardo del biondo verso il suo. Sembrava infastidito, forse perplesso. – Perché noi…  - strinse il pugno destro dalle nocche graffiate e tumefatte. – Perché tu non sei il mio migliore amico. Non più.
Brian si impose di stare calmo solo per Roger, solo per le sue condizioni e per la tristezza che già vedeva abbondare nei suoi occhi. Si sistemò meglio sullo schienale del divano. – Ti rendi conto di quanto questo discorso sia infantile e inutile?
Una lacrima rigò la guancia di Roger e quando Brian se ne accorse non disse una parola. Il chitarrista, continuando a tenere lo sguardo fisso davanti a sé, allungò una mano e la posizionò su quella del ragazzo, stringendola nella propria. Schiuse le labbra. – Metti per un attimo da parte l’orgoglio, il rancore e la rabbia. Permettiti di essere libero dalle catene di cui tu stesso ti sei circondato, Rog.
Sentì un singhiozzo, un colpo di tosse, e gli strinse più forte la mano. 
- Perché le cose intorno a me hanno iniziato a cadere a pezzi senza una ragione, Bri? 
 

 
Roger rise, baciando la fronte del ragazzo e spostandogli una ciocca di capelli ricci dietro a un orecchio. – Perché sei così paranoico, Bri? Nulla andrà storto, intesi?
Brian, dal canto suo, era talmente agitato da essersi mangiucchiato tutte le unghie della mano destra. Stavano per fare qualcosa di importantissimo, di meraviglioso. Ma anche incredibilmente terrificante. Soprattutto per lui che era ansioso a tal punto da poter esplodere sul posto. – E se non ce lo facessero fare? E’ già abbastanza difficile adottare un bambino, figurati per due persone omosessuali. 
- Io so essere molto femminile se voglio. E soprattutto convincente.
Brian sospirò. – Rog. 
- Sto scherzando, quanto sei palloso e rompicoglioni. 
La stanza in cui li avevano fatti accomodare era graziosa e adorabile. Erano seduti su due poltroncine di pelle nera, circondati da acquari e da muri dalle pareti blu. Era una sala d’attesa piena di piante e pesciolini e a Brian piaceva da impazzire, ma non abbastanza da farlo sentire a suo agio e sciogliere i suoi nervi. 
Però sentire le dita delicate di Roger accarezzargli i capelli lo fece sentire un po’ più tranquillo. 
La porta della stanza si aprì e Brian sussultò leggermente. 
Una ragazza alta, dai lunghi capelli castani e con una montatura spessa appoggiata sul naso uscì dalla porta scorrevole e sorrise. – I signori May-Taylor? 
Roger fece un raggiante sorriso e si alzò in piedi. La sua mano era ancora stretta a quella di Brian, che rimaneva appiccicato alla poltrona senza volersi muovere, perciò il biondo perse per un attimo l’equilibrio. Cercando di non perdere anche la pazienza alzò le spalle e guardò la giovane che aspettava davanti alla porta con un’espressione perplessa a incresparle i lineamenti dolci. – E’ solo un po’ agitato. 
Brian si alzò a sua volta e quando la donna lo notò rizzò la schiena. – Potete seguirmi all’interno. 
Roger si voltò verso il marito e lo pietrificò con lo sguardo, facendolo sbuffare. Entrarono nello studio in cui la ragazza aveva detto di seguirla, che era grande e forse ancora più bello della sala d’attesa. C’era una carta da parati fiorata e una scrivania di vetro era posta in un angolo della stanza, piena di poltroncine colorate e giocattoli per bambini. 
La ragazza che li aveva accolti si sedette davanti alla scrivania, facendo segno ai due musicisti di accomodarsi di fronte a lei. 
Si schiarì la voce e sorrise, osservando i documenti che aveva davanti agli occhi. – I Queen sono la band migliore di tutti i tempi. 
Brian scoppiò in una risatina imbarazzata e nervosa, meritandosi una gomitata nelle costole da parte di Roger, che sorrise gentilmente alla ragazza. – Ci fa immensamente piacere, signorina… 
- Chiamatemi Emily. – lo interruppe lei, scribacchiando qualcosa. Tornò a guardare i due negli occhi, la sua espressione era tranquilla e riuscì perfino a rassicurare il povero Brian. Sorrise radiosamente. – Come d’accordo, abbiamo discusso sulla vostra richiesta e la vostra pallina è andata in buca. Avete ogni requisito per adottare James, e a proposito di questo, curriculum impeccabili. 
Brian strabuzzò gli occhi e Roger sfoderò un sorriso a trentadue denti, col cuore che batteva forte come una grancassa. 
Pensarono a come fosse stato difficile arrivare fino a quel punto, ci erano voluti mesi, si erano scoraggiati diverse volte e avevano pensato altrettanto frequentemente di non potercela fare. Quando avevano ricevuto quella chiamata dal centro d’adozione avevano recuperato ogni speranza, nonostante non ci fosse ancora nulla di certo. Il chitarrista strinse forte la mano del minore. 
Emily si sporse leggermente, affacciandosi dalla porta di legno accanto a lei. – E’ molto timido, sarebbe già dovuto essere qui ma si vergognava parecchio.
Brian sussultò quando sentì qualcosa sfiorargli la gamba. Abbassò lo sguardo insieme a Roger, vedendo un piccoletto accucciato sotto alla scrivania giocare con una macchinina giocattolo. Emily abbassò a sua volta la testa per rendersi conto della situazione, e appena vide il bambino scoppiò a ridere. – Ecco dove si era cacciato il nostro James!
Roger e Brian sorrisero nello stesso identico momento. 
 
 
 

Lisbeth’s notes.
Ciao, sono viva!
Scusatemi ancora per l’ennesima assenza, ma questo capitolo è stato cancellato e riscritto almeno una ventina di volte. Avevo tante indecisioni che mi stavano facendo impazzire e che hanno notevolmente rallentato la pubblicazione di questo penultimo capitolo. Sì, siamo quasi alla fine e io sono notevolmente stupita.
Vorrei precisare qualcosa riguardo l’ultima parte del capitolo: so bene che le adozioni gay non potessero essere effettuate negli anni 70, ma mi sono permessa di cambiare un po’ le cose per rendere la storia proprio come avevo desiderato che fosse, come ho precedentemente accennato.
Come avete potuto notare, inoltre, questa è una raccolta di flashback che precede l’ultimissima parte di questa storia, che ho già scritto. Non posso però dare la sicurezza sulla data in cui lo pubblicherò, perché non sarò a casa per un mesetto e non so se potrà esserci la disponibilità per avere un momento per aggiornare.
Siamo quasi giunti alla fine e sono veramente felice dei risultati che ho ottenuto anche grazie a voi e al vostro sostegno.
Spero che il capitolo, seppur breve, vi sia piaciuto. Vi abbraccio!
With love,
- Lis.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jul 01, 2019 ⏰

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You don't know what it means to me. (Maylor)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora