Because you don't know what it means to me

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- Come sto? – Brian era agitato, terribilmente agitato. Dire che era nel panico più totale sarebbe come sminuire il fatto che stesse letteralmente per esplodere lì, in quella casa. Su due piedi gli sarebbe venuto un infarto e poi avrebbero celebrato il suo funerale mentre lui era ancora vestito in quel modo. Sentiva l’adrenalina scorrergli nelle vene come un fiume in piena e sentiva che sarebbe diventato pazzo da un momento all’altro. Bazzecole, insomma. 
Il problema di Brian, persona molto riflessiva, intelligente e calma, era l’essere ansioso come pochi. Si faceva paranoie su paranoie, andava nel panico per qualsiasi cosa. 
La ragazza che era davanti a lui scosse la testa e sorrise. – Sei una meraviglia, Bri. Talmente bello che se tu fossi etero e io non avessi un figlio ti sposerei. 
- Non ti consiglierei di dire questa cosa a Roger, Veronica. – disse Freddie, che in quel momento era lì solo ed esclusivamente per infastidire Brian e mettergli più ansia di quanto già non ne avesse, passandosi una mano sulla nuca. – E nemmeno a John. 
Veronica scosse le spalle, aggiustando la cravatta di Brian mentre il ragazzo tremava come una foglia. – Se non stai fermo non riesco a mettertela.
- Non sto sudando, vero? 
- No, Brian. Profumi ancora di bergamotto.
- I capelli?
- Ce li hai ancora.
- No, dico, vanno bene? Sono in ordine?
- Per l’amor di Dio. Ti stai sposando, non stai andando al patibolo! – intervenne Freddie, sbuffando.
- E’ il giorno più importante della mia vita, Fred! 
- Oh, signore. Hai detto la stessa cosa un sacco di volte. Dovevi laurearti, lo hai detto. Dovevi fare la proposta a Roger, lo hai detto. Lo hai detto anche quando abbiamo cantato in concerto per la prima volta. Sei insopportabile quando fai così. 
- Ma questo lo è per davvero! – un gemito soffocato gli sfuggì dalle labbra quando Veronica, senza rendersene conto, strinse un po’ troppo la cravatta. – Potrei vomitare sull’altare, potrei sbagliare tutto con Roger e allora sì che sarebbe la fine. Ti rendi conto che se faccio un errore, anche banale, anche minimo, quattro anni di storia vanno a puttane? La mia vita va a puttane!
- Oh tesoro, ne hai già fatte troppe di stronzate per mandarti la vita a puttane. 
Brian sbuffò. – Ti ringrazio. Questo sì che mi fa sentire meglio.
- Andiamo, Bri. E’ Roger. Roger! 
- Eh, appunto. Roger sarà bellissimo come sempre e io sarò un disastro. 
- Qualsiasi cosa farai, la cosa più brutta che potrà farti sarà riderti in faccia e dirti che sei un coglione. – Freddie afferrò le spalle di Brian, alzandosi leggermente sulle punte. – Ma ti ama. Come nessun altro ti abbia mai amato o ti amerà mai.  
In fondo, Brian lo sapeva. Credeva a Freddie. Gli credeva perché si rendeva conto dagli sguardi che quegli occhi azzurri gli lanciavano, dai sorrisi e dal rossore sulle guance del suo ragazzo che, sì, Roger lo amava, come lui amava Roger. E sapeva che lo avrebbe amato ogni giorno, in ogni momento. 
Lo vedeva appena sveglio, la mattina, lo amava. Lo vedeva sfinito e sudato dopo i concerti, lo amava. Lo amava quando quei capelli biondi erano disordinati e spettinati, lo amava quando era talmente nervoso da sembrare un gatto indispettito. 
Lo amava.
E sapeva, come gli aveva detto Freddie, che probabilmente per Roger fosse lo stesso. 
Ma questo mica era abbastanza per farlo calmare. Oh, no. Ci voleva ben altro.
Vedeva i suoi capelli terribilmente crespi, e odiava il suo fisico troppo magro che rendeva l’abito sempre dannatamente largo. Che cosa non aveva fatto, per trovare un completo che fosse della sua taglia. Tutto ciò che gli stava bene era troppo corto, il resto era troppo grande ma della giusta lunghezza. Si aggiustò per l’ennesima volta la giacca, sbuffando quando la vide cadere mollemente sulle spalle. – Sto di merda.
- Oh, Cristo!
 
L’altare non era altro che il giardino di Brian e colui che doveva celebrare il matrimonio era il perennemente sorridente Harold May. Quando Brian gliene aveva parlato, aveva avuto un po’ di paura di quale sarebbe potuta essere la sua risposta. E invece l’uomo gli aveva sorriso e lo aveva stretto forte, non solo felice, ma anche fiero di suo figlio. Brian non poteva essergli più grato.
Solo che quando Harold aveva visto Roger, che sarebbe dovuto arrivare dopo suo figlio, aveva aggrottato la fronte. 
Il ragazzo di Brian era di una raffinatezza che mai gli aveva visto addosso. Certo, quella sua bellezza era innegabile, con gli occhi azzurri grandi come quelli di un bambino e i lineamenti dolci. Aveva i capelli più corti, osservò Harold. Doveva averli tagliati prima di arrivare lì e ci stava forse anche meglio. Gli davano un aspetto meno androgino e lo facevano sembrare più grande. 
Non sembrava assolutamente lo stesso ragazzino rozzo e un po’ troppo esuberante che ruttava ai pranzi di Natale.
Ma una cosa c’era sempre e restava sempre invariata: Roger era unico in qualsiasi situazione. I vestiti stravaganti erano meno sfarzosi del solito, ma c’erano. Aveva una giacca larga, fiorata, sopra alla camicia bianca abbottonata. I pantaloni erano bianchi e la caviglia era ampia.
E, anche se non sembrava, Roger era sull’orlo di una crisi di nervi. Non voleva renderlo evidente davanti al padre di Brian, ma stava morendo di paura. E se non fosse stato abbastanza? E se Brian avesse cambiato idea, una volta lì, davanti a lui? 
Il vero problema era che Roger Brian nemmeno lo vedeva. Si stava chiedendo dove diavolo fosse. Lui era arrivato tardi apposta, così come gli era stato detto di fare. Si girò verso le sedie disposte dietro di lui, numerate e che sarebbero dovute essere degli invitati. Riconobbe i loro produttori e diversi amici. I posti accanto a John e Mary, che sarebbero dovuti essere occupati da Freddie e Veronica, erano vuoti. Tutti gli altri erano stati riempiti. Aggrottò la fronte in direzione del bassista, mimando con la bocca la frase “Dove cazzo è Brian?”.
L’amico alzò le spalle e scosse la testa. Non ne aveva la minima idea. 
Roger venne sommerso da paranoie. E se non si fosse presentato? Se lo avesse abbandonato? Se…
- Scusatemi! 
La voce del suo ragazzo gli giunse alle orecchie, soffiando via tutti i pensieri negativi di Roger. Il biondo si voltò verso Brian e sentì che il cuore avrebbe potuto schizzargli fuori dal petto da un momento all’altro. Brian era sempre stato bellissimo, per lui. Stupendo, meraviglioso, perfetto. Con quei ricci morbidi e scuri, gli occhi color nocciola così dolci e delicati, il naso leggermente arcuato e le labbra sottili. Con quel sorriso così sincero e luminoso. 
Ma quel giorno gli sembrava davvero di essere davanti a qualcuno di incredibilmente bello, in modo quasi impossibile, in quell’abito bianco e nero sulla figura sottile e allampanata. 
E per Brian non era certo il contrario. Roger, il suo Roger. Lì, che sorrideva, spaventato quanto lui, nervoso più che mai. Forse, però, un po’ meno del povero Brian, che doveva quel ritardo ad uno svenimento proprio nel bel mezzo di una crisi di nervi. Ma in quel momento tutta la paura scivolò addosso entrambi come pioggia, nel momento in cui si afferrarono le mani, si guardarono negli occhi in un modo che riusciva ad esprimere un milione di parole.
Roger scostò un ricciolo ribelle che era finito sul viso del ragazzo, ridendo divertito mentre Harold cominciava a parlare. 
- Ti fai desiderare anche al tuo matrimonio, May? – sussurrò, non riuscendo a smettere di sorridere e facendo avvampare Brian immediatamente. – Scusami, Rog. Io… Io… 
- Sei bellissimo.
Bria sentì l’imbarazzo andar via, piano piano. Voleva baciarlo, ne aveva bisogno più di qualunque altra cosa, ma voleva lasciare quel momento per dopo. Gli accarezzò una guancia. – Tu sei indescrivibile.
 
- Puoi baciare lo sposo! – esclamò finalmente Harold, mentre Brian nemmeno gli lasciava il tempo di finire la frase che si era già fiondato sulle labbra del suo ragazzo. Di suo marito.
Fu il bacio più bello della sua vita. Era come se fosse il primo, come se fosse l’unico. Un bacio affamato, un bacio che sembrava perfetto. Roger rideva sulle sue labbra mentre lui gli stringeva forte i fianchi, come a volerlo tenere tutto per sé, come a non volerlo abbandonare per nessun motivo al mondo. 
Pensò a quanto avevano lottato insieme, pensò a tutti i sorrisi, tutte le lacrime, tutte le risate e tutte le carezze. Pensò a quei meravigliosi occhi blu, che avrebbe voluto guardare per sempre. Lo strinse più forte. Lo guardò negli occhi. 
- Ti amo. – lo baciò.
- Ti amo. – lo baciò ancora. 
- Ti amo, ti amo, ti amo.
 

 
- Cos’è quella, papà? Una chitarra? – James si sedette sul piccolo divanetto accanto al vecchio televisore e guardò Brian, indicando lo strumento che aveva preso pochi attimi prima e che voleva far vedere al bambino. Il giovane padre sorrise e scosse la testa, imbracciando quello strumento così particolare, dal manico non troppo lungo e dal corpo rotondo. Pizzicò appena le corde, il cui suono era acuto e fece ridere il piccolo James.
- Questo è un banjolele. E’ uno strumento che ha le caratteristiche dell’ukulele e del banjo.
- Quelli che suona papà?
Brian fece una smorfia. – Anche io li suono.
- Però papà li suona anche ai concerti.
Il riccio aggrottò la fronte e guardò il bambino. – No, in realtà no.
- Sono quelle cose della batteria?
Brian sorrise, intenerito. – Jimmy, no. Non sono i componenti di una batteria. Sono degli strumenti a corde, te li ho anche fatti vedere.
-  Quando?
Il papà si morse il labbro. – Quando… Ah. – alzò gli occhi al cielo. – Quando tu e papà mi avete interrotto giocando con le macchinine.
Il piccolo James allungò una mano verso lo strumento musicale. Brian glielo avvicinò e lo vide enorme tra le braccia del bambino. Sorrise.
Le manine iniziarono a cadere pesanti sulle corde velocemente e Brian fece una smorfia, con il presentimento che quel vulcano – fin troppo simile a Roger – potesse rompere il povero banjolele.
- Jimmy, fa’ un po’ più piano. Quelle corde sono molto delicate e a papà dispiacerebbe tanto se si rompessero.
- Ma uffa!
- Che state facendo? – una voce allegra e familiare giunse alle orecchie dei due: Roger era entrato nella stanza trotterellando con il piccolo Felix tra le braccia.  Brian aggrottò la fronte, sospettoso. – Dov’è Louisa?
- Dorme.
- Sicuro?
- Certo. Cos’è, credevi che l’avessi buttata in un cassonetto?
- No. Pensavo fosse scappata lei perché l’avevi fatta esaurire.
- Divertente.
- Papà. – James fece quasi cadere lo strumento musicale che aveva tra le braccia, facendo per un attimo fermare il cuore di Brian. Roger lo guardò e gli sorrise. – Sì?
- Giochiamo con la palla?
- No! – esclamò immediatamente Brian, non volendo ripetere la scena che si era verificata l’anno prima, quando Roger, per un calcio tirato troppo forte al pallone, lo aveva colpito esattamente sul naso facendoglielo sanguinare. – Nessun pallone! Giocate con… Che so… Della gomma piuma?
Roger e James si guardarono nello stesso preciso momento. Con lo stesso identico sguardo.
 

 
- Non pensi di star studiando un po’ troppo, dottore? – Roger si appoggiò con le mani alla scrivania, curvando la schiena e inclinando la testa per guardare il suo ragazzo. Gli sorrise dolcemente e lanciò poi un’occhiata al libro su cui Brian stava studiando, pieno di cose e parole che lui, studente di biologia, non capiva molto bene. Il suo ragazzo sospirò, accarezzandogli distrattamente una mano e passandosi l’altra tra i ricci disordinati. 
Era lì fermo da… Quanto? Dieci ore? Undici? Aveva iniziato al sorgere dell’alba, dopo essersi soffermato ad osservare Roger dormire ancora profondamente e fargli qualche carezza di tanto in tanto. E in quel momento era già tarda sera. A breve avrebbe dovuto scrivere la tesi di laurea, poteva dire di essere ancora a zero con lo studio ed era talmente stressato da non riuscire più a dormire serenamente.
Non che fosse una novità.
Il vero problema, fonte della sua distrazione, era che in quell’appartamento minuscolo non ci vivevano in due. Ma in quattro. Quattro musicisti che tutto erano fuorché silenziosi. 
E Brian aveva più volte provato a chiedere con tutta la calma e la gentilezza possibili di abbassare la voce e il volume. Ma ovviamente i tre ragazzi non si erano fermati nemmeno per scherzo. Pensava di poter contare almeno su Roger ma, a quanto pareva, non c’era nemmeno uno squarcio di possibilità che il giovane batterista potesse schiacciare il freno per fermare tutto quel chiasso che, probabilmente, Brian non aveva mai sentito così forte prima di quel giorno. E, ancora, aveva risposto le sue speranze su John. Era stato vano per l’ennesima volta. 
Ovviamente non aveva nemmeno considerato l’idea che Freddie potesse calmare le acque. 
I tre avevano pensato bene di mettere su un concertino con tamburelli, ukulele, kazoo e triangoli, che facevano un rumore assurdo e che arrivava direttamente nelle orecchie del povero studente disperato. Come se la musica dal vivo non bastasse, Freddie e Roger avevano anche iniziato a cantare in falsetto per capire chi avesse la voce più acuta. Nonostante tutti e quattro fossero perfettamente consapevoli che il batterista avesse un fischietto per cani al posto della gola. 
Erano le cinque di pomeriggio quando Brian aveva spalancato la porta del piccolo studio, guardando le teste di cazzo con occhi furenti. Non aveva detto nulla. Semplicemente, dopo aver lanciato il tamburello di Roger a terra, aveva sbattuto nuovamente la porta, chiudendosi dentro la stanza. 
In quel momento era in una fase di completa rassegnazione e vedere il sorriso di quel cretino del suo ragazzo lo tirò leggermente più su. Roger si sedette affianco a lui e gli accarezzò i ricci. – Ti porto le scuse di tutti e tre. Avrebbero voluto dartele direttamente, ma come immaginerai stanno già russando. 
Vide Brian portare gli angoli delle sue labbra all’insù e ciò fece sorridere anche lui. 
- Ci siamo comportati come dei bambini, lo sappiamo. Però ti abbiamo fatto una torta. – si chinò sullo sgabello su cui aveva posato la teglia che conteneva il dolce e la porse a Brian. – Lo so… Non l’abbiamo nemmeno messa in un piatto. Però almeno non l’abbiamo bruciata! 
Il riccio continuò a sorridere, attirando Roger a sé e baciandolo dolcemente. – E’ vero, hai pienamente ragione. Siete infantili, imbecilli e completamente fuori di testa. Avete tutti compiuto vent’anni da almeno tre ma sembra che ne abbiate cinque, sette e dieci. Però se non ci foste voi la mia vita sarebbe una rottura di coglioni.
- Sì, tutto quello che vuoi. La mangi la torta? 
- Quando finisco di studiare. – disse posando un bacio sulla guancia del batterista per poi tornare con gli occhi sui libri. Per sua sfortuna, Roger non sembrava essere tanto d’accordo. 
- Eh no, secchione. – sbottò, appoggiando la teglia sui libri coprendo la visuale a Brian. – Tu adesso mangi e non mi rompi le palle. Sarai arrivato a pesare cinquanta chili! Poi pensi alla tua tesina inutile.
- Non è una tesina. E’ una tesi.
- Fatto sta che non devi rompermi il cazzo. 
- Ti sei dimenticato cosa facevi tu?
- Mi comportavo meglio di te.
- Oh, sì, certo. Mi hai cacciato, urlandomi che ero una “cazzo di mammina apprensiva dei miei coglioni”, parole tue, e mangiavi come un morto di fame. E hai strappato il libro. Poi hai dovuto comprarne un altro, e quando sei andato a prenderlo e la ragazza ti ha detto che li aveva finiti tu l’hai chiamata “rincoglionita”. Alla fine te l’ho comprato io. 
- Almeno mangiavo.
- Ho mangiato.
- Ficcarsi in bocca dell’erba non è mangiare!
- Era un’intera busta d’insalata!
- Posso sentire il tuo stomaco urlarmi di darti la torta. – si abbassò un po’, all’altezza della pancia di Brian, e finse la voce più acuta che riuscisse a tirar fuori. – Dammi la torta, Roger! Questo pazzo non vuole nutrirmi. 
Il chitarrista rise e prese il ragazzo tra le sue braccia. Gli lasciò un bacio sulla testa bionda, mentre lo faceva sedere sulle sue gambe. – Ti hanno mai detto che sei adorabile?
 

 
Brian entrò nell’edificio con un’ansia e una paura che non ricordava di aver mai provato.
Le porte dell’ascensore si aprirono davanti a lui e gli permisero di entrare mentre lui prendeva un profondo respiro. C’era un ragazzo accanto a lui che sembrava distrutto. In lacrime, completamente devastato. Il chitarrista si voltò a guardare i pulsanti che indicavano il numero dei piani e schiacciò su quello che corrispondeva all’ottavo.
Prese un altro respiro e attese. Attese finché non vide le porte aprirsi, uscì.
Un uomo alto, con due grossi occhiali sul naso e un lungo camice bianco lo aspettava davanti alla porta del proprio studio. Non sorrideva, era completamente inespressivo. Solo un po’… Triste? Dispiaciuto? E ciò già preannunciava che niente, in quella giornata, sarebbe andato come avrebbe dovuto.
Lo capì da quello sguardo e sentì tutte le proprie speranze sgretolarsi come carbone. Lo sentì salutarlo e ricambiò cordialmente, mentre il dottore lo faceva accomodare nel suo studio.
Non aveva detto niente a Roger.
Non gliene aveva parlato perché aveva tanta paura. Non voleva che lui soffrisse, non voleva che si preoccupasse troppo presto.
Il ragazzo era stato con lui, la prima volta in cui si era sentito male.
Gli era svenuto davanti agli occhi e si era risvegliato in ospedale, in quell’ospedale in cui da poco era entrato.
Tuttavia, non gli aveva parlato delle sue preoccupazioni. Non gli aveva minimamente parlato degli esami che era andato a fare giorno per giorno e delle parole che i dottori gli avevano detto.
Aveva bisogno di fargli vivere la sua vita come aveva sempre fatto. Senza niente che non andasse.
A Roger avrebbe fatto troppo male.
Ascoltò il dottore con le orecchie ritte, ad ogni parola il suo cuore faceva sempre più male e ogni sua ansia e paura si realizzavano, lo divoravano come cannibali.
- L’esito della biopsia è positivo.

You don't know what it means to me. (Maylor)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora