Capitolo II

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BOOOM! Un colpo forte, spalla contro spalla, e lo zaino che Lea aveva in mano cadde fragorosamente sul pavimento del corridoio scolastico. Veniva dal laboratorio di Scienze, dopo l’ora del Prof Landolfi.

Ora i suoi libri, caduti dallo zaino aperto, erano tutti sparsi sul pavimento. In effetti si era distratta a guardare dei piccioni appollaiati sulla grondaia, fuori dalla finestra, e non stava guardando davanti a sé, ma quello spilungone a che diavolo pensava? Dove stava guardando mentre camminava?

“MAX, TORNA QUI!” si sentì urlare dal fondo del corridoio.
Lea si girò di scatto verso quella voce.
Lo guardò con irritazione e lui a malapena la vide, continuava a fissare il suo telefonino sul pavimento, come se fosse un neonato che avesse smesso di respirare, accanto ad un paio di libri e quaderni che anche a lui erano caduti nello scontro.

Le rivolse anche uno sguardo sdegnato, arrogante, prima di chinarsi a raccoglierlo. Toccò qualche tasto e disse “Meno male, funziona ancora”.
“Potresti almeno chiedere scusa!” disse Lea.
“Ma veramente… sei stata tu a venirmi addosso. Stavi guardando fuori dalla finestra, invece di stare attenta a dove andavi. Ora pure le scuse vuoi? Che storie!”
“Almeno aiutami, che devo correre in classe, la campanella è già suonata da cinque minuti”.
Max si chinò e raccolse i libri suoi e della ragazza, le penne e le matite che erano uscite da un astuccio di stoffa azzurra a fiori bianchi.

Ma improvvisamente comparve la collaboratrice Giovanna, in tutta la sua mole, dietro alcuni studenti che percorrevano il corridoio.

Il ragazzo raccolse le ultime cose, le porse a Lea e si scambiarono uno sguardo da vicino. Poi prese dalla tasca del giubbotto un lavoro all’uncinetto tutto stropicciato e lo lanciò verso la donna.
“Tieni Giovanna, mi arrendo!” le urlò.
Rivolse a Lea una strizzata d’occhio.

“Tanto lo dico alla Preside! Vedrai! Stavolta ti faccio passare un guaio!” urlò la collaboratrice, inviperita, con un forte accento calabrese.
“Grazie!” gli disse Lea, in tono ancora abbastanza indignato, cominciando a riporre le sue cose nello zaino.
“Prego! E scusami tanto, non volevo!” rispose Max, e la osservò con attenzione.

In fondo il ragazzo era stato educato, la aveva aiutata e alla fine si era anche scusato. Di lui si dicevano cose cattive nella scuola: che era un montato perché era bello, perché sapeva giocare bene a pallacanestro e già era nel giro della prima squadra. Già lo pagavano, si diceva, ed era una promessa, destinata alla serie A, se non si perdeva per qualche motivo.

Dove aveva già visto quella ragazza dai lunghi capelli e gli occhi neri come la notte? pensò Max. A scuola, certo. Ma c’era qualcosa in più. Ora che la stava guardando con attenzione, gli sembrava di conoscerla già, per qualche motivo. Come se ci fosse stata tra loro una consuetudine dimenticata.

Il suo pensiero tornò rapidamente alla chat che aveva lasciato a metà, prima di rubare d’impulso il lavoro all’uncinetto di Giovanna, una delle vittime preferite per i suoi scherzi.

Stava chattando su Messenger col suo compagno di squadra Christian Zarri, che gli spiegava a che ora si sarebbero visti per andare insieme a fare allenamento di basket nel pomeriggio.

Guardò lo schermo del telefonino, che forse si era leggermente scheggiato nella caduta.

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