Capitolo IX

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Catanzaro, 20 maggio 2018 ore .17:23

“Guarda!” disse Max, “Ci sei anche tu!”
Ecco dove l’aveva già vista, prima del fortunato scontro che aveva intrecciato le loro vite. Dietro la scrivania c’era ancora una grande foto incorniciata. L’ex Preside tiene Lea per mano e lei guarda fisso l’obiettivo della macchina fotografica, senza sorridere, con lo sguardo concentrato e luminoso dei suoi occhi leggermente a mandorla.

Avrà dieci, undici anni, ma l’intensità del suo guardare è assolutamente inconfondibile. Mentre attendeva che il Preside arrivasse, una volta, Max era stato seduto davanti a quella foto per una ventina di minuti e gli era rimasta impressa nella mente in modo indelebile.

La stanza puzzava leggermente di muffa. Lea rimase a fissare la foto per qualche istante, come se sperasse di veder apparire la sagoma del padre seduto alla scrivania, proprio come l’ultima volta che era entrata lì.
Era tutto in disordine. “Probabilmente sono stati gli inquirenti a  lasciare l’ufficio in questo stato” pensò, e le tornarono in mente i pomeriggi passati in quella stanza a fare i compiti e a guardarlo lavorare.
Si avvicinò alla scrivania e la sfiorò con la mano. Rivide tutto.  Risentì tutto. Il sorriso di suo padre, i suoi occhi, il suono della sua voce, il calore della pelle, il profumo muschiato del suo dopobarba.

Iniziò a piangere, perché provava dolore fin dentro le viscere, un vuoto immenso che scavava senza pietà.
Max le si avvicinò da dietro e la abbracciò. Lea si girò, si abbandonò al suo abbraccio.

Dopo un po’ si riprese e cominciò ad aggirarsi per la stanza. Guardava sugli scaffali, aprì un armadietto quasi completamente vuoto, sfogliò vecchie carte senza importanza. Tornò alla scrivania e notò che al centro aveva un’ampia macchia scura. Era rimasta impregnata del sangue del suo povero papà, evidentemente.
Di nuovo sentì l’angoscia prendere il sopravvento, quasi la fece svenire. Ma si fece forza, doveva restare in sé, trovare qualcosa, se c’era qualcosa da trovare. Sulla scrivania c’era un saggio di Storia, “Antistoria degli Italiani”. Lo aprì.

Sul frontespizio c’era una dedica dell’autore, Giordano Bruno Guerri, a suo padre. Diceva “Al Preside Restaneo, con stima” e sotto c’era la firma. Nell’angolo destro della pagina c’era un’altra scritta, ugualmente a penna, più piccola e tra virgolette.
“Cercare la verità è la cosa più difficile, perché è nascosta in fondo alle cose che nessuno sa”.
Sembrava una citazione letteraria, ma a Lea diceva qualcosa di più. Non sapeva esattamente cosa, ma la frase conteneva l’espressione “Cose che nessuno sa”, il titolo di un libro che il padre e lei avevano letto ed amato entrambi e di cui avevano parlato un paio di volte, appassionatamente.
All’improvviso ebbe un’intuizione. Si girò di scatto e andò fino allo scaffale pieno di libri che era in fondo alla stanza. Scorse i volumi uno ad uno, dal ripiano più alto al più basso.
Proprio sull’ultimo ripiano lo vide, “Cose che nessuno sa” di Alessandro D’Avenia, Mondadori editore. Lo tirò fuori e con grande emozione riconobbe la copertina. C’era una ragazza che le somigliava vagamente, con gli occhi chiusi, i capelli scuri, l’orecchio poggiato alla valva di un’ostrica. Il luogo dove si crea la perla, la bellezza più pura, dal pezzo della chela di un predatore, rimasto imprigionato dopo la chiusura delle valve a scopo di difesa.
Lea ricordava molto bene la metafora centrale del romanzo. Voleva dire che solo passando attraverso il dolore e la paura si può raggiungere la purezza, la gioia, la bellezza. L’aveva sempre tenuta in un angolo del suo animo quella metafora bellissima dell’ostrica e ora, si rese conto, la stava vivendo sulla sua pelle.

Aprì il volume e ritrovò nelle prime pagine le note che vi aveva scritto, come faceva sempre. Le tremavano le mani per l’emozione, mentre girava pagina per pagina. Poi le tornò in mente la frase scritta dal padre sul libro che stava sulla scrivania “Cercare la verità è la cosa più difficile, perché è nascosta in fondo alle cose che nessuno sa”.
Andò “in fondo” al libro, per vedere se la sua intuizione era giusta.
In una delle ultime pagine c’era un foglio piegato in quattro. Lo aprì e capì subito che si trattava proprio di ciò che stava cercando.
               Catanzaro,13 marzo 2015

Cara Lea,
Se stai leggendo questa lettera, vuol dire che le cose sono andate male. Quando la leggerai, non sarò più con te fisicamente, ma ti osserverò sempre da dove sarò finito, ti starò sempre vicino e ti proteggerò, anche se tu non lo saprai.
Se mi faranno sparire, vi spingeranno a pensare che mi sia suicidato, sappiate che non è così: si tratta di omicidio, omicidio da parte di un collaboratore della scuola in cui lavoro in qualità di preside, probabilmente la scuola che frequenterai. Ho notato spesso il suo atteggiamento lavativo e strafottente e ho cominciato a tenerlo un po’ d’occhio. Cerca di fare il meno possibile ed è sempre scontroso con i colleghi e i professori. L’ho convocato più volte e lui sai che mi ha detto? Che l’istituto fa schifo, i prodotti sono scadenti, le attrezzature inefficienti. Allora, essendomi studiato il suo curriculum ed avendo visto che ha un diploma di Liceo Linguistico, con Inglese, Francese e tedesco nel corso di studi, mi è venuto spontaneo recitargli un modo di dire britannico che ho imparato quando, da giovane, ho studiato a Londra per un annetto: “A bad workman always blames his tools” (che vuol dire “Un cattivo operaio dà sempre la colpa ai suoi attrezzi). Te l’ho tradotta solo per sicurezza, so che in Inglese sei già bravissima. 
Lui mi ha guardato come se avessi parlato in arabo.
Ho ripetuto la frase. Niente.
Allora mi sono divertito ad intavolare una discussione in Inglese. Non capiva un’acca.
“Ma Guaglianone, lei non ha studiato Inglese come prima lingua in un liceo linguistico?”
E’ sbiancato. Ha balbettato “Eh, sono passati tanti anni! Che vuole, se non si usano, le lingue straniere si dimenticano!”
“Ma lei non può non capire neanche le semplicissime frasi che le ho detto, se ha questo diploma linguistico… Sappia che farò dei controlli…”
A quel punto ha sorriso. Poi, con l’espressione più serena del mondo, fissandomi negli occhi, mi ha detto senza mezzi termini che dalle nostre parti le persone che non si fanno gli affari propri spesso fanno una brutta fine.
Ha aggiunto che il Preside che c’era prima, lui sì era uno che sapeva stare al mondo, che capiva come trattare le persone. Sapeva chi era lui e gli lasciava il giusto spazio.
“Lei pure, signor Preside, dimostri che sa campare con dignità, faccia la persona seria”.
La dignità, capisci? Vivere con dignità sarebbe far fare il suo porco comodo ad un mafioso, dentro la mia scuola. La scuola è sacra per me. Non saranno Stefano Guaglianone né altre bestie come lui a farmi piegare la schiena.
Ho subito telefonato all’Istituto regina Margherita, presso cui si è apparentemente diplomato, nel 1995. Di lui non hanno mai sentito nemmeno il nome, non ce n’è traccia nei loro archivi.
Nei prossimi giorni sporgerò una regolare denuncia alla procura. Spero di fare in tempo e spero che l’atto non “si perda”, come a volte succede da queste parti. Una volta fatta la denuncia o anche prima, probabilmente mi uccideranno. So che non sarà facile da accettare, né per te né per tua madre, ma non piangete troppo per me, perché muoio da uomo coerente e soprattutto da uomo. Imparerai che non tutti lo sono davvero.
Sto scrivendo questa lettera nella speranza che tu la trovi e che ne faccia l’uso opportuno, portandola alle forze dell’ordine.
Non so tra quanto tempo la leggerai, ma sono quasi sicuro che la troverai, nel libro di uno scrittore che abbiamo scoperto insieme e che entrambi amiamo. Ti auguro tutto il bene del mondo.
                                                      Papà

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