Capitolo 3

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Sharon

 La luce che entrava dalla finestra mi dava un fastidio assurdo. Cercai di riaddormentarmi, ma invano. Presi il cellulare e controllai l'ora, erano le 6.23. Decisi di alzarmi perché tanto ormai il sonno era andato via insieme alla mia capacità di stare in piedi, infatti appena misi i piedi per terra la testa iniziò a girarmi in modo incredibile e rischiai di cadere, probabilmente mi ero alzata troppo velocemente. Andai in cucina e dal frigo presi del succo d'arancia e, dopo essermene versata un bicchiere, mi buttai sul divano e accesi la TV.

Dopo tre ore passate a guardare talk show vari e programmi stupidi decisi di prepararmi delle uova e mentre mi avvicinavo alla cucina qualcuno iniziò a "prendere a pugni" la mia porta d'ingresso. Che razza di persona si presenta alle 9.30 del mattino e bussa così?

Andai ad aprire e mi ritrovai davanti quell'odioso ragazzo che a quanto pare mi perseguitava.

<Non puoi proprio vivere senza di me. Dì la verità: ti sei fissato con me e i miei amici perché ti sei innamorato della sottoscritta. E' una settimana che mi fermi per strada o m'insegui, dalle mie parti si chiama stalking, e poi... come fai a sapere dove abito?>

<Come fai a parlare così velocemente?>

<Adesso il problema è mio, ovvio. Tu sei assillante! Seriamente, non ti sopporto più.>

<Sta volta, però, volevo dirti che ho scoperto molte cose. La tua gang trova la sua origine durante il proibizionismo, come tante, e il vostro scopo è quello di portare giustizia dove la legge non può portarne. La vostra prima regola è: "niente morti.".
Nemesi era il nome della dea che personificava la giustizia nell'antichità, più in là però venne intesa come "fatale punitrice della tirannide e dell'egocentrismo.", in poche parole era la dea della vendetta.>

Iniziai a ridere a crepapelle sotto lo sguardo stranito del ragazzo e poi dissi:

<Sei molto bravo con Google. Tutto quello che hai detto è giusto, ma in realtà c'è molto altro che io non ho intenzione di raccontarti. Quindi adesso puoi andare e lasciare perdere tutto. Credimi, potresti farti tanto male, e sei troppo carino per essere ferito. Dimentica tutta questa storia, per favore.>

Dimenticai le mie uova e mentre lui continuava ad assillarmi mi chiusi in bagno e dopo essermi lavata il viso, i denti, truccata e vestita uscì di casa, afferrando al volo la mia solita giacca di pelle, nel tentativo di seminarlo. Ma a quanto pareva era tutto inutile, non aveva intenzione di mollare l'osso. Dopo qualche metro, però, mi resi conto che qualcuno ci stava seguendo in lontananza e li riconobbi subito dalle divise. Erano gli scagnozzi del proprietario della Andrews Corporation. Non ho mai capito cosa si facesse in quell'azienda, ma cavoli se riuscivano a infastidire la gente. Il signor Andrews ci aveva presi di mira negli ultimi mesi, perché non avevamo intenzione di lasciare la zona, lui voleva sfrattarci per inserire al nostro posto un'altra "gang" che rispondesse direttamente ai suoi comandi e che seminasse terrore facendosi conoscere. Lui pensava che gli avessimo creduto quando ci aveva detto che voleva semplicemente liberare Manhattan dalla nostra violenza perché tutti avevano paura di noi, il che era assolutamente falso, nessuno sapeva della nostra esistenza, ma noi avevamo fatto le nostre ricerche e alla fine scoperto tutta la verità.

Iniziai a girare ad ogni vicolo cercando di seminarli, ma non ottenni nulla oltre le mille domande del moretto che continuava a seguirmi.

<Per quale motivo mi stai ancora seguendo?> gli urlai interrompendo il suo continuo blaterare.

<Se tu rispondessi ad una sola delle mie domande te ne sarei molto grato.>

Stavo per ribattere, ma il panico mi congelò il sangue nelle vene quando mi resi conto che eravamo finiti in un vicolo cieco. Avrebbe saputo troppo e la verità non fa mai bene quando si tratta di me. L'ultima speranza era la pasticceria italo-francese davanti a noi, così lo presi per un braccio e lo trascinai all'interno, ma loro se ne accorsero e, ancora in preda al panico, entrai nel bagno delle donne e chiusi la porta alle nostre spalle. Non so perché avessi tanta paura, ma avevo la sensazione che nulla di tutto ciò fosse giusto. Mi resi conto soltanto dopo delle dimensioni di quel bagno e quando mi voltai ci trovammo faccia a faccia, così vicini da poter sentire il silenzio di ogni respiro. La sua espressione era un misto tra stupore e preoccupazione. Prima che potesse pormi qualsiasi domanda iniziai a parlare io:

<Stanne fuori, per favore. Ho bisogno di sapere che nessun altro finirà in questo manicomio per colpa mia. Se non vuoi farlo per proteggere te stesso, fallo per me. Lascia perdere tutto. È un mondo troppo incomprensibile.>

<Okay, lascerò stare. Ma ho bisogno di sapere una cosa Sharon: tu starai bene?>

<Da quando ti importa di me?>

<Da quando quella lacrima è scesa dal tuo occhio.>, mi toccai di riflesso la guancia e asciugai quella lacrima di cui avevo ignorato l'esistenza.

<Non so come starò, so solo come sto adesso.>. Detto questo uscii dal bagno e lentamente mi avvicinai alla porta di servizio sgattaiolando all'esterno.

Ciò che il cielo non ci diceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora