1

5K 107 1
                                    

Punto lo sguardo sul mio quaderno pieno di scritte fin troppo ordinate per essere davvero frutto di appunti presi alla rinfusa, mangiucchio il tappo della mia biro nera e tento di frenare la mia gamba dal picchiettare ritmicamente sul pavimento.

Sono nervosa, non potrei non esserlo: in gioco c'è il mio futuro, la mia carriera. Dipende tutto da questo.

Non posso fallire, non ho margine d'errore e la tensione è alle stelle.

Ma la parte migliore, è che tutto questo deve ancora cominciare.

«Vi verrà assegnata una clinica in base alla media accademica e i crediti acquisiti nel corso degli anni, vi metteremo in contatto col responsabile per i tirocini e da quel momento dovrete camminare con le vostre gambe per le sei settimane successive. Come saprete, al termine del tirocinio, verrà chiesto al vostro tutor di compilare un questionario di valutazione, che farà media con l'esame orale che sosterrete a gennaio. Ci sono domande?».

Osservo il professore di medicine fisiche e riabilitative mentre attende che qualcuno gli ponga almeno una domanda, come nella speranza che qualcuno abbia ascoltato tutto il suo monologo di più di mezz'ora.

Diamine, non voglio finire come lui.

Non voglio trovarmi a cinquant'anni con una laurea in fisioterapia a insegnare svogliatamente in un'università.

Io voglio agire. Voglio i pazienti da seguire, le cartelle cliniche da analizzare, casi intricati da risolvere. Voglio diventare la migliore, essere la fisioterapista di cui chiunque si fida, perché è risaputo quanto sia brava nel suo lavoro.

Non è pecca di umiltà, è solo sognare in grande, puntare in alto.

Se non si punta in alto, si finisce come il professor Wallen, a fare un lavoro che non ci piace e non ci soddisfa con il solo scopo di arrivare a fine mese. Ecco, il professor Wallen non deve aver fatto un gran lavoro al tirocinio del terzo anno.

Henry, seduto accanto a me, alza come suo solito la mano. Proprio non ce la fa a star zitto a lezione, anche a costo di dire le cose più assurde e inutili che lasciano di stucco qualsiasi professore.

«Se non fossimo d'accordo con la clinica che ci viene assegnata, potremmo cambiarla?».

Sorrido davanti alle paranoie esagerate del mio amico, che si sta già preoccupando di non trovarsi bene nell'ambiente in cui sarà collocato. Pensare che tutto andrà storto è più forte di lui, lo è sempre stato.

«Sì, ma a patto che troviate qualcuno disposto a fare a cambio con voi e che entrambe le cliniche siano assegnate alla stessa fascia di media accademica».

Henry annuisce, poi si volta verso di me e mi guarda con fare confuso. Non ha ascoltato tutta l'introduzione iniziale, come suo solito.

«Le cliniche sono divise in base alla media degli esami sostenuti, alcune sono riservate a chi ha una A, altre a una B e così via», gli spiego, quindi, sottovoce.

Per essere uno che si preoccupa per ogni minimo dettaglio, presta davvero poca attenzione alle spiegazioni dei professori. È un paradosso che non capirò mai ma, del resto, tutta l'esistenza di Henry è un paradosso continuo. Ormai, dopo più di due anni di amicizia, ho smesso di pormi domande quando si tratta di lui, ci ho rinunciato. Ci sono misteri che semplicemente non si possono risolvere, ed Henry è uno di questi.

I minuti passano poi relativamente veloci, scanditi dalle ultime brevi spiegazioni del professore in merito al nostro tirocinio e poi l'inizio della lettura da parte sua dell'elenco con i nostri nomi.

Quando Henry viene chiamato, imita gli altri studenti, cammina fino alla cattedra del professore e attende che questi gli consegni una cartellina bianca, poi esce dall'aula.

Quando mi guardo intorno, noto che ormai siamo rimasti in pochi seduti tra le file di questa aula. Se c'è una cosa che ho sempre odiato del mio cognome, questa è proprio che l'iniziale sia in fondo all'alfabeto, il che prevede spesso e volentieri che io rimanga tra gli ultimi ad attendere per qualsiasi cosa. Sono anche l'ultima tra i miei amici, quindi mi annoio a morte nei minuti che mi separano dalla mia tanto attesa nomina.

Sorrido quando questo accade, cammino velocemente fino a raggiungere la cattedra, afferro la cartellina bianca che mi spetta e mi incammino verso l'uscita.

«Signorina Reynolds», mi richiama il professore, e io mi volto verso di lui, incuriosita dal perché voglia parlarmi. Non ho mai fatto interventi durante le sue lezioni, non sono quel tipo di studentessa, quindi proprio non riesco a coglierne il punto. «Ho guardato il suo profilo accademico, mi aspetto grandi cose da lei».

Insomma, nessuna pressione addosso. Come se già prima non ne avessi.

Sorrido ugualmente prima di uscire dall'aula, dove i miei amici mi stanno aspettando seduti sul prato del cortile interno.

Li trovo intenti ad ascoltare l'ennesimo monologo melodrammatico di Henry, che si sta lamentando in modo tutto fuorché pacato della clinica a cui è stato assegnato perché "vi pare che io debba andare a lavorare in quel posto dimenticato da Dio?". Non che abbia tutti i torti, appena riesco a captare il famigerato quartiere della clinica non riesco davvero a dargli contro. Si trova a un'ora di autobus da qui, la metropolitana non ha una tratta che arrivi fin là e senza alcun dubbio non è un bel quartiere da frequentare. Per una volta il nostro povero piccolo melodrammatico ha ragione, per quanto esageri nell'esprimersi.

Mi siedo accanto a Beth e prendo a giocare con dei ciuffetti d'erba, fingendo di prestare attenzione al melodramma messo in scena dal nostro amico, quando in realtà sono distratta dalla rugiada che ancora non ha lasciato i fili d'erba che mi scorrono tra le dita, lasciandole umide.

A volte, isolarsi è l'unica tecnica di sopravvivenza quando si tratta di Henry e dei suoi monologhi tragici che non sembrano mai giungere a una conclusione.

Lo sanno bene anche i nostri amici che, come me, sembrano tutti persi nel loro mondo, mentre Henry è in piedi al centro del cerchio che abbiamo formato, che cammina avanti e indietro, gesticolando come fosse italiano, sbraitando parole che ormai nessuno sta più a sentire.

Gli vogliamo un bene infinito, ma a volte è in grado di prosciugare completamente tutta la pazienza presente nei nostri corpi.

«Fai a cambio con me, Noelle?», mi chiede, poi, venendosi a sedere accanto a me e posando la testa sulla mia spalla.

Sospiro, in fondo ancora non ho guardato che clinica mi sia stata assegnata. Mi interessa il risultato finale, non dove trascorrerò il tirocinio. Una clinica vale l'altra in fondo, no?

«In che fascia sei?».

«B, tu?».

Scuoto la testa. «Mi spiace Henry, siamo in due fasce diverse», confesso, e sento gli occhi di tutti saettare su di noi.

Sì, lo so, lo so. Sono quella seduta in fondo a ogni lezione, che passa più tempo al cellulare che a prendere appunti e parla sempre col vicino di banco del giorno, però studio tanto. Sono una studentessa apparentemente nella media, ma non ho mai detto a nessuno i risultati dei miei esami. A chi me lo ha chiesto, ho sempre detto che sono andati bene, ma senza mai accennare al voto vero e proprio. Tutti sono sempre stati certi di una B, e io non ho mai voluto far niente per far loro cambiare idea. Non mi importa, la verità è questa. Infatti scrollo le spalle davanti all'attenzione generale.

«Cosa? Quanto hai di media?», chiede Jordan con un tono a metà tra lo stupito e il confuso.

«A», confesso prima di aprire, ormai incuriosita, la cartella bianca che ho tra le mani e leggere il nome della clinica che mi è stata assegnata.

Per un secondo sento il respiro mozzarmisi in gola.

So che ho detto che la clinica non importa, e lo penso ancora, ma diamine.

Non riesco a crederci: lavorerò nella clinica più rinomata di Londra.

Rise Up || Charles LeclercDove le storie prendono vita. Scoprilo ora