UNA BAMBINA, UNA VOLTA

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Seduta sulle scale - avevo sette anni - osservavo la natura che mi circondava sul balconcino adorno di vasi.
L'albero più bello era l'oleandro pieno di fiori rosa che dava lavoro alle mie sorelle che spazzavano. Un modo questo per tenersi pronte a trovare un marito.
Il mio unico gioco era l'altalena appesa a un ulivo, nient'altro che una fune con una tegola sopra come sedile. Purtroppo ogni volta che salivo mi cadeva sui piedi, ma ero felice, perché da lì riuscivo a osservare ogni cambiamento della natura.
L'inverno era la stagione che meno sopportavo: il candore, la purezza, ma allo stesso tempo il freddo gelido che mi tratteneva dentro casa vicino al camino.
La primavera invece la adoravo: un'esplosione di profumi e colori si liberava nell'aria, allietando i miei sensi.
I primi fiori che la annunciavano erano le viole e le primule, ne facevo un mazzetto e lo lasciavo in una bottiglia sopra al tavolo. Appesi agli alberi, lentamente arrivavano i frutti e gli altri fiori.
D'estate la natura si trasformava: spighe dorate invadevano i campi, con dei papaveri rossi in mezzo che si affacciavano quasi a rompere lo schema geometrico, mentre il vento cullava il campo; io mi rifugiavo sotto la grande quercia per il caldo.
All'inizio quest'albero dava dei frutti bianchi con cui facevo dei braccialetti con ago e filo. Con una vecchia bici correvo lungo le strade e alzavo un grande polverone. Le rondini a centinaia sul filo della luce conversavano tra di loro, e insieme osservavamo le nuvole che descrivevano quadri.
Con il passare dei giorni il cielo diventava sempre più grigio, giungeva la nebbia, il clima cambiava. Pian piano di soppiatto e sempre lei, la grande quercia, cominciava a perdere le prime foglie sino a rimanere completamente spoglia, e l'autunno era arrivato.
Il suolo era un tappeto di foglie colorate, e nell'aria si sentiva l'odore del mosto, intenso.
Scalza sul prato mi sentivo libera, la natura era incontaminata. Ero felice, anche se sentivo la mancanza di mia madre, che andava al lavoro presto e tornava a notte inoltrata.
Mio padre lavorava i campi. Ricordo ancora le orme dei suoi piedi nudi nel fango e le sue grandi mani venose, che mi accarezzavano trasmettendomi amore. Con fare deciso arrotolava i pantaloni fino al ginocchio, toglieva i sandali e con la zappa faceva un solco nel quale scorreva l'acqua che andava a irrigare le piante.
Chi coltivava i campi come noi sopravviveva con i prodotti della terra. Noi eravamo grati alla natura, ci dava tutto quello di cui avevamo bisogno.
Io e mio fratello, anche se eravamo ancora bambini, davamo il nostro contributo alla famiglia.
Il giorno passava un camioncino che lasciava delle cassette che io e lui riempivamo di fichi: i soldi che guadagnavamo, nostro padre non li voleva, li lasciava a noi.
Un giorno mio fratello urlò e saltò dall'albero di fichi, le formiche avevano invaso la sua pelle.
Mia madre per comprare il sale e lo zucchero doveva vendere l'olio e altri prodotti della campagna.
L'unico mezzo di trasporto che avevamo era una motocicletta che guidava mio padre: era molto bravo, ma non aveva la patente di guida per la macchina.
Quando io e mia madre andavamo al mercato, mio padre lavorava nei campi. Io e lei andavamo a piedi, dovevamo percorrere otto chilometri; vedevo il viso di mia madre grondante sudore, affaticato dal portare le borse, sofferente dalla fatica.
Arrivate al mercato, le donne spettegolavano:
- È imbarazzante, davvero imbarazzante! Di certo molte donne si vergognerebbero nel sapere ciò che ha fatto lei! -
- Sì, io l'ho vista la moglie di Renato, è andata con Samuele, tutte e due a mungere le pecore, lì dentro la stalla, è là che è avvenuto il peccato -
Così dicevano le comari.
- Sono entrati insieme, a fare che cosa non si sa, lui è entrato ad aiutare a mungere la pecora, ma invece teneva lei. -
Arrivata l'ora di tornare a casa capitava di non aver venduto nulla. Così mia madre andava ad offrire la merce sottopagata e per me questa era una cosa umiliante. Avevo sudato, lavorato e invece ero ricambiata con pochi soldi.
Questa ero io, lo sono ancora, e ho capito che a volte anche se poveri si è felici, e il mio sorriso innocente di bambina valeva più del denaro offerto dai commercianti.

L'UOMO/MACCHINA DA SCRIVEREDove le storie prendono vita. Scoprilo ora