40. La prima finale

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Nonostante il mal di schiena, porto da solo il borsone delle racchette, entrambi gli spallacci infilati. In mano ho una seconda borsa, dove metto sempre gli integratori e gli strumenti di igiene orale e personale. Il tunnel di uscita è davanti a me, il vociare intenso dell'Arthur Ashe, il campo centrale degli US Open, lo stadio di tennis più grande del mondo. Alle mie spalle, Molina.

Non mi capita più tanto spesso di avere il mio avversario alle spalle. È una cosa che mi riporta indietro a qualche anno fa, prima che scalassi il ranking: è sempre il giocatore più basso in classifica a entrare per primo. Mi sembra di essere tornato ragazzino, e non è una bella sensazione.

«From Italy, Michele Bressan!»

Lo speaker pronuncia il mio cognome correttamente, l'accento sulla A. Esco e saluto la folla con la mano, sono accolto da applausi, ma si sente qualche fischio, in mezzo alle esultanze. Mentre prendo posto alla mia panchina, lo speaker annuncia Molina, e il boato della folla è quasi assordante. Già lo sapevo che avrebbero fatto il tifo quasi solo per lui, ma non è una sensazione piacevole.

Me la faccio scivolare addosso in fretta. In meno di un minuto sono pronto e vado a rete. Molina saltella, saltello anch'io per scaldarmi, Helena Adish, l'arbitro designato, ci dice le regole, non le ascolto. Nessuno le ascolta mai, ma devono essere dette. «Any questions?» Entrambi scuotiamo la testa. C'è mai stato qualcuno che ha fatto una domanda? Non mi è mai capitato di vederlo. Ma è una specie di rituale. «Rico, head or tails?» Gli arbitri sanno che non devono mai chiedere a me. Molina sceglie tails, esce heads. «R-receive.» Rispondo. «Stay» dice Molina.

E corriamo a fondocampo.

Ci scaldiamo, mentre lo speaker parla di noi. Molina spinge tantissimo anche durante il palleggio di riscaldamento, mi dà un assaggio di ciò che sarà l'incontro.

Il mal di schiena è lì. Quiescente, non troppo intenso, pronto a esplodere dopo i primi scambi. Ho dell'antinfiammatorio in circolo, e un bel po' di medicinali e sostanze che non so cosa siano, alcuni sono stimolanti (legali) per contrastare gli effetti soporiferi dell'analgesico, altri sono antiacidi. Malgrado mi fidi di Ethan, ho il sospetto che sia un cocktail di farmaci a mezzo passo dal doping. Ma non faccio domande. È la finale. Mi fido ciecamente del mio staff.

Durante i servizi di riscaldamento cerco di non spingere, dovrò farlo in partita. I servizi sono la cosa che mi ammazza di più la schiena, spero di non essere costretto a mettere troppe seconde.

Cominciamo.

Ho scelto di ricevere, nella speranza di fare break subito. Ogni tanto capita che Molina entri un po' freddo e si faccia fare break in apertura, soprattutto se l'avversario spinge molto. Poi recupera quasi sempre, ma io ovviamente conto di non farmi recuperare.

La strategia funziona! Gli faccio break, a quindici. Sono partito aggressivo. È l'unico modo in cui posso giocare. Sperare di vincerla in tre set. Impossibile, ma devo crederci.

Ma il mio vantaggio non dura molto. Al quarto game arriva il controbreak, e la folla esplode. Molina mi fa correre, mi ammazza di risposte profonde e piazzate, riprende tutto ciò che gli rimando.

Molina in un incontro qualunque è un giocatore ai limiti dell'impossibile.

Molina in una finale Slam è un incubo. Un incubo vero, a cui si aggiunge il mio mal di schiena.

Quando vado a sedermi sul 2-3 (senza break) guardo il mio angolo. Non lo guardo spesso, perché gli sguardi di papà di solito mi disturbano; quanto a Lazlo, non può darmi indicazioni, se l'arbitro lo sorprende mi dà un warning per coaching. Ma mi sento un po' disperato, e li guardo: la faccia dura e imperscrutabile di papà, quella nervosa di zia Elena, quella concentrata di Lazlo, quelle preoccupate di Ethan e Armando. 

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