109. Essere numero uno

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Toronto, Rogers cup. Il primo dei due Mille americani che precedono gli US Open.

Dovrei allenarmi. Ho prenotato un campo tra due ore e mezza.

Dovrei alzarmi dal letto, fare colazione, lavarmi i denti e andare a fare l'ora e mezza che ho prenotato con Takahashi.

Ma non mi va.

Sono il numero uno del mondo, avrò diritto a prendermi un giorno di pausa, ogni tanto, no?

Tutti sgomitano per allenarsi con me.

Ho una lista d'attesa. La gestisce Anna. Come tutto il resto.

Cosa dirà Takahashi se non ci vado? Be', che dica quello che vuole. Sono il numero uno del mondo, non sono io a dover fare favori a lui, che è... che numero è Takahashi? Dieci? Dodici? Ho perso traccia della classifica. 

«Michele, la colazione è pronta» mi fa Anna, dall'altra stanza.

Non voglio alzarmi. Perché dovrei alzarmi? Non ho voglia di alzarmi. Non ho voglia di fare nulla.

Anna bussa alla porta.

Mi giro nel letto e do le spalle alla porta.

Che si apre. «Ehi, Michele... stai ancora dormendo?»

Posso starmene qui, prendermi una pausa. Domani gioco il primo turno, qui a Toronto. Tanto lo vinco uguale anche se oggi dormo. Gioco contro Samuel Willan che sta ancora faticando a trovare la sua forma dei tempi d'oro, dopo il lungo stop per infortunio. Lo batterei anche a occhi chiusi. Sono il numero uno del mondo.

«Ehi, Michele, mi rispondi? Sei vivo?»

La mano di Anna mi scuote.

Perché ti sei uccisa, mamma?

«Michele, non fare il cretino.»

Mi torna in mente all'improvviso, nei momenti più inaspettati. 

In realtà non mi abbandona mai. Anche quando non ci penso, il pensiero è sempre lì, nascosto, che aspetta solo di salire alla superficie della mia coscienza.

Non l'ho detto a nessuno, quello che mi ha rivelato mio padre. Non l'ho detto a Ivan e nemmeno ad Anna. Non ne ho più parlato nemmeno con papà. Vorrei dimenticarmene per sempre.

«Michele!» Anna mi sta scuotendo adesso, con forza. Devo risponderle?

Mi giro, la guardo.

Lei mi guarda. Sembra preoccupata. «Ma stai bene?»

«N-n-non voglio alzarmi.» Faccio una fatica incredibile a pronunciare queste parole.

«Stai male? Cos'hai?»

Alzo le spalle.

Lei inclina la testa. «Stai facendo i capricci?»

«No.»

In tutta risposta, mi toglie il lenzuolo di dosso, con un gesto brusco. Poi mi spinge, brutalmente, e quasi mi fa cadere dal letto. «Alzati. Hai una sessione con Takahashi tra due ore e venti. Non puoi mangiare troppo a ridosso dell'allenamento.»

Sbuffo e mi alzo.

«Ho una bella notizia per te» dice, mentre andiamo verso la sala da pranzo della suite. «Hanno annunciato l'ultimo partecipante alla Laver Cup.»

«Mh...» mormoro. La Laver Cup.

Quest'anno la gioco, l'ho saltata il primo anno per infortunio, e l'anno scorso perché mi ero già impegnato col torneo di San Pietroburgo che si gioca nella stessa settimana.

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