Capitolo Sei. Caccia alle uova di Natale

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CAPITOLO SEI

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CAPITOLO SEI. CACCIA ALLE UOVA DI NATALE

Era una giornata fredda e cupa, con il cielo livido venato di nubi temporalesche e un vento tanto mordente da far irrigidire i muscoli nonostante i pesanti strati di vestiti. 

Oneiron tirò, infastidito, su con il naso – la punta affilata già lievemente arrossata – e nascose il mento affusolato nel colletto in loden del suo Havelock verde oliva, rimpiangendo non con poca nostalgia gli inverni miti della Provenza. Quando fosse riuscito nuovamente a fuggire alle grinfie delle sorelle, se ne sarebbe andato il più lontano possibile da quello stupido paese e il suo stupido maltempo, di questo era certo.

All'ennesima carezza ghiacciata sul viso scoperto, batté i piedi intirizziti sul pianerottolo marmoreo dell'ingresso e mormorò un'imprecazione in francese, la maestosa tettoia del pronao che non faceva poi molto per proteggerli dal gelo. In quel momento non voleva fare altro che rientrare nella villa opalescente e piantarsi davanti alla bocca spalancata del camino delle sue stanze. 

E magari provare a recuperare qualche ora di sonno, mentre il resto degli abitanti della magione era sveglia e nel pieno delle attività.

«Non possiamo proprio rimandare?» tentò un'ennesima volta, abbassando il capo per poter incontrare lo sguardo assottigliato della sorella, intenta fino a poco prima a sistemare meglio il fazzoletto di lino sopra alle uova sode graziosamente dipinte, il manico di vimini intrecciato della cesta incastrato nell'incavo del gomito del ragazzo.

«Non volevi passare del tempo con me e darmi una mano?» gli rinfacciò candidamente la giovane, il corpo rotondo accentuato dal cappotto di cashmere beige e una cuffietta in tinta ben calata sui corti capelli biondo ramato. Con la carnagione scolorita dal freddo, la voglia che le ricopriva il lato sinistro del viso aveva acquistato una tonalità purpurea e violenta e pareva allargarsi sulla sua pelle lentigginosa come tempera sull'acqua.

«Ti ho aiutato a colorarle» le ricordò lui, il tono strascicato e profondo mentre mal celava uno sbadiglio. Dipingere quelle dannate uova natalizie e scambiare chiacchiere a vuoto con Irida lo aveva distratto dalla sua stanchezza fisica e mentale, ma, ora che i due erano fermi in attesa della carrozza da una decina di minuti, questa gli si stava riversando addosso a secchiate e si sentiva le palpebre pesanti come macigni. Ripensò nuovamente al fuoco scoppiettante nella sua camera da letto e sospirò mestamente.

«Una, e nel frattempo hai rovesciato la scodella dell'acqua sul mio scrittoio.»

Al che Ron si lasciò scappare una smorfia e tornò a guardare il cortile sottostante, l'acqua zampillante della fontana che fumava a contatto con l'aria, irrigidendosi all'udire gli schiocchi secchi e ritmici degli zoccoli sulla ghiaia farsi sempre più vicini, ma lasciandosi anche scappare un sospiro sollevato al pensiero dell'abitacolo tiepido e ben imbottito della vettura.

«Da quanto lo fai?» inquisì dopo qualche istante di silenzio, mentre il cocchiere dai modi bruschi e una brutta verruca sul mento – Oneiron non faceva il minimo sforzo per ricordarne il nome – fermava i due Clydesdale ai piedi dell'imponente scalinata.

«Questa sarà la nostra prima caccia alle uova, a dire il vero, ma so che la adoreranno...» iniziò a rispondere Irida con un accenno di sorriso, incrociando un braccio a quello libero del fratello e iniziando a scendere con cautela i gradini resi scivolosi dalla gelata della notte precedente.

«Non lo metto in dubbio, ma non è quello che intendevo» la interruppe con una delicatezza che riservava solo e unicamente a lei.

«Circa cinque mesi e ormai non riesco nemmeno a immaginarmi un sabato passato lontano da loro» rivelò dopo una breve pausa per capire cosa intendesse allora l'altro, salutando con un lieve cenno del capo l'auriga – gentilezza che non passò inosservata al fratello, il quale ignorò bellamente il "Buongiorno, signorini" del vecchio e continuò a fare come se nemmeno esistesse.

«Non puoi cancellare il passato aiutando qualche orfano» soffiò Oneiron con voce sottile, aggiustandosi la pellegrina sui gomiti per non doverla più guardare negli occhi ambrati, aperti e dolorosamente naïfs.

«Lo so.»

«Allora perché lo fai?» insistette il giovane quasi in un lamento, spostandosi sulla sua sinistra in modo da mettere la maggior distanza possibile tra sé e i due cavalli sbuffanti. Per quanto ora la stesse accompagnando all'orfanotrofio di Inverness per organizzare una giornata di svago per i suoi piccoli, sfortunati abitanti, il bel Kairos non riusciva a capire perché la sorella avesse dedicato ogni sabato degli ultimi cinque mesi a loro, invece che a se stessa.

«Non lo faccio per me, ma per loro. Siamo orfani anche noi, Ron, ma loro non hanno Martia per assicurarsi una vita sicura e agiata.»

«Sei troppo buona per questo mondo, Ida» scosse il capo lui, lasciando che gli sfilasse il cestino dal gomito e se lo stringesse al petto florido, cullandolo neanche si fosse trattato di un infante piagnucolante.

«Non dirlo come se fosse una brutta cosa» mormorò piano, quasi supplicandolo di non guardare alla vita con sguardo tanto negativo.

«Lo è – insistette invece lui, tamburellando distratto con le nocche inguantate della mano destra contro la fiancata legnosa del calesse. – Questo non è un mondo per persone buone e temo che, quando te ne renderai conto tu stessa, sarà troppo tardi.»

«Io voglio essere positiva, invece. Possiamo fare la differenza, Ron. Nostro padre era un uomo malvagio e quello che ci ha fatto e noi abbiamo fatto non può essere cambiato, ma non dobbiamo continuare a vivere nel passato e vederci come mostri.

– O vedere il resto del mondo come nostro nemico, come la metti tu. Succedono cose orribili, lo so, non sono cieca né sorda, ma ho scelto di concentrarmi su quanto di bello e buono c'è. Mi aiuta a convivere meglio con me stessa e andare avanti, in un certo senso.

– Verne ci ha creati per portare il caos e la morte, ma questo non è tutto ciò che siamo. Ora siamo liberi di essere quello che desideriamo e io voglio essere un'orfana che aiuta altri orfani portando loro vestiti, pasti caldi e giochi... donare loro l'infanzia che meritano e che io non ho mai conosciuto.» Il suo tono di voce, sebbene ridotto a un bisbiglio sottile di modo che il cocchiere non potesse udirla, tradiva la stessa emozione, cruda e divorante, che le inumidiva ora lo sguardo e arrossava le guance paffute. A differenza dei fratelli, Irida non si era mai vergognata di mettersi tanto a nudo davanti a qualcuno e non accennò a nascondere le lacrime, sfidandolo, anzi, a distogliere per primo lo sguardo o a provare a minimizzare la sua confessione con il suo solito commento sarcastico.

Oneiron la guardò, serio come non era mai stato dal suo ritorno a casa e totalmente a corto di una controrisposta – una novità, per lui – e si limitò a un rigido cenno del capo, prima di aprirle silenziosamente la portiera della carrozza color guscio di noce e aiutarla a salire lo scalino in ferro battuto, le sue parole che gli frullavano, frenetiche e destabilizzanti, tra i pensieri affilati e cupi, come un passerotto rimasto intrappolato in un cespuglio di rovi.

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