capitolo quattordici

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25 Ottobre 1917, San Pietroburgo. Ore 16:00.

"A che pensi Jaeden?" chiese Wyatt seduto comodamente sul divanetto con l'altro, carezzandogli i capelli. Anastasija aveva appena finito la lezione di pianoforte ed era uscita per prendere un po' d'aria. Stare rinchiusa ventiquattro ore su ventiquattro non le faceva affatto bene, e anche se sostare in giardino era molto pericoloso, ne aveva bisogno.
Avevano deciso di continuare le lezioni, perché gradite o meno, erano gli unici momenti in cui Anastasija smetteva di pensare alla guerra. Aveva anche fatto progressi negli ultimi mesi, forse anche perché sperava che se avesse imparato in fretta tutte le nozioni, Jaeden se ne sarebbe andato da Palazzo.
"Non so che pensare." rispose, facendo intrecciare le loro mani. "Là fuori c'è la fine del mondo e ho tanta, tantissima paura." confessò, chiudendo gli occhi, cercando di godersi le attenzioni del soldato.
"Andrà tutto bene." lo consolò Wyatt, rincuorandolo che parole che sapevano di bugia. Ma volevano crederci comunque, perché non era rimasto loro nient'altro.
"Sono preoccupato per la mia famiglia." aggiunse poi Jaeden, dopo qualche attimo di silenzio. Wyatt lo strinse ancora più forte a sé, in un abbraccio quasi soffocante, ma che serviva a fargli capire che lui c'era e che ci sarebbe sempre stato.
"Loro sono lontani da tutto questo, sono al sicuro." gli disse il soldato riferendosi alla madre e alle sorelle del giovane accanto.
"Siamo noi a non essere al sicuro."
"Farò di tutto per farti restare al sicuro. Te lo prometto."
Wyatt si sporse in avanti per poterlo baciare, ma l'altro si scostò immediatamente, con una leggera risata per smorzare quell'aria tesa che si era venuta a creare.
"Ci scopriranno, scemo." gli aveva detto, spingendolo via. Ma Wyatt rise con lui, riabbracciandolo di nuovo e prendendogli il mento tra le dita, iniziando a baciargli tutta la mandibola ricoperta da un po' di barbetta incolta. "Voglio solo suggellare questa promessa." insistette, premendo finalmente le sue labbra contro quelle del pianista, che non si oppose per nulla, ma anzi, gli diede libero accesso.
In quel bacio trovarono speranza, ma in quel bacio trovarono anche la loro rovina, perché dalla porta che Anastasija aveva lasciato socchiusa, c'era la cameriera Helena che proprio quel giorno aveva deciso di compiere a dovere il suo lavoro e pulire tutte le stanze.
Rimase sconcertata da ciò che vide. Era immorale che due uomini si baciassero e ancora di più lo era se si trattava di una persona di un certo livello come Jaeden e un semplice mercenario.
Non perse tempo, lasciò scopa e pezze proprio lì davanti la porta e andò dritto dalla zarina, a confessare qualcosa che mai il Palazzo d'Inverno aveva visto.

25 Ottobre 1917, San Pietroburgo. Ore 19:00.

Due ore dopo, Jaeden il pianista acclamato da moltissime persone in Russia, fu convocato alla presenza della zarina Aleksandra Fëdorovna Romanova, che pur di non pensare alla guerra, aveva deciso di preoccuparsi delle cose che riguardavano il suo adorato Palazzo, lasciato nelle sue mani dal marito Nikolaij II partito per la guerra.
"Vostra Maestà." si inchinò il giovane, sorpreso per quella chiamata improvvisa e curioso di sapere che cosa volesse da lui la donna più potente del mondo.
Quello che vide fu come un dejà vu: la zarina era seduta comodamente sul divanetto, sorseggiando tè nero d'alta qualità, esattamente come la prima volta che si erano incontrati.
La differenza stava nel fatto che gli occhi di Aleksandra erano di un azzurro spento, quasi assente, e persino la sua maschera da donna austera non riusciva a coprire quella perdita improvvisa di colore. Jaeden si morse un labbro: sapeva che anche lei in fondo, aveva un cuore d'oro e che la guerra la stava distruggendo, come stava distruggendo tutta la popolazione russa.
"Hai fatto un ottimo lavoro in questi mesi." aveva iniziato la donna, senza neanche guardarlo negli occhi. "Hai persino insegnato qualcosa a quelle teste dure delle mie bambine."
Jaeden si sforzò di fare un sorriso, mentre sussurrava un debole "Grazie.".
"Sai, avresti potuto anche continuare a lavorare qui, magari insegnando il pianoforte alle mie figlie. Ma poi mi è giunta voce di una certa relazione che sai, caro Jaeden, non ci fa fare di certo una bella figura di fronte agli altri."
Il cuore di Jaeden mancò di un battito. O forse di due, tre.
Era certo che stesse parlando di lui e Wyatt, li avevano scoperti, se lo sentiva. Il suo labbro tremò, gli occhi si riempirono di lacrime ma da qualche parte dentro sé trovò la forza per chiedere "In che senso, vostra Maestà?"
"Devi andartene, Jaeden, entro stasera. Non possiamo cacciare via il soldato perché in un momento come questo una guardia in più non può farci che comodo, ma un pianista al momento non è più richiesto."
Jaeden inghiottì, incapace di rispondere. La sua mente era annebbiata, l'immagine della zarina era ormai sfocata. Immobile e cercando di non cedere al dolore davanti Aleksandra, si inchinò come aveva fatto appena era entrato e disse: "Sono stato onorato di lavorare al vostro servizio. E' stata l'occasione più grande della mia vita. E non mi pento di nulla."
La zarina rimase sorpresa per quella grande forza che aveva mostrato il pianista. Aveva colto la leggera frecciatina dell'ultima frase, ma non gli diede peso più di tanto, poiché aveva capito che Jaeden era davvero un brav'uomo.
"Dasvidania, vostra Maestà. Le auguro il meglio." salutò Jaeden in un veloce addio, prima di uscire dalla sua stanza in modo diplomatico e lasciarsi dilaniare dal dolore definitivamente.
Si accasciò dietro la porta della zarina, non pensando che se fosse uscita l'avrebbe visto in quello stato. Chiuse gli occhi, cercando di respirare regolarmente, ma gli mancava l'aria, la stretta al cuore era troppo forte e si sentiva morire. Appoggiò le mani a terra per trovare la forza di alzarsi, ma ci vollero diversi tentativi prima che ci riuscisse. Mentre camminava dovette aiutarsi a stare in piedi sostenendosi con una mano sul muro. Non sapeva dove stava andando, non gli importava. Avrebbe tanto voluto cercare Wyatt e dirgli la verità, ma con che faccia poteva dire all'uomo che amava che erano costretti a separarsi? Alcune lacrime sfuggirono al controllo, rigando le guance portatrici di tanti ricordi. Le asciugò in fretta, sperando che nessuno che passava accanto a lui le avesse notate.
I suoi piedi lo portarono nella loro camera, mentre la sua testa era in un'altra dimensione: stava rivivendo ogni singolo momento passato col soldato, dal primo incontro, dalla prima colazione, al primo bacio, al primo pianto insieme.
Gli aveva regalato tutto ciò che aveva. L'anima, il corpo, la mente, era stato tutto donato a quel ragazzo che in realtà si era già preso tutto senza neanche chiederlo.
Lo amava, ormai ne era più sicuro. Lo amava con ogni singola fibra del corpo, ogni singola ossa e anche se ce n'erano milioni, anche con ogni singola cellula. Si sedette sullo sgabello davanti a quel pianoforte che con tanta gentilezza Wyatt aveva fatto riparare per lui. Si ricordò che non lo aveva mai ringraziato abbastanza per quel gesto, e che lo avrebbe fatto prima di dirgli addio.
Non riusciva neanche a pensarla quella parola. Non poteva neanche concepire di separarsi da lui, non dopo quell'anno meraviglioso che avevano passato insieme, seppur con qualche mese di stallo.
Senza di Wyatt, non gli sarebbe rimasto più nulla. O forse sì, una sola cosa: la musica. Per questo, iniziò a premere i tasti del pianoforte davanti a sé, rifugiandosi nell'unico mondo oltre le braccia di Wyatt in cui si sentiva protetto. Tasti neri e tasti bianchi, tasti bianchi e tasti neri e poi insieme e poi separati, in una danza guidata da quelle dita affusolate che in quel momento desideravano essere incastrati tra i capelli del soldato, o accoccolate nelle sue guance.
Un sussulto ad una nota alta: Jaeden iniziò a piangere seriamente, versando tutta l'anima in quei tasti che potevano capire il dolore che stava provando.
Non stava suonando una musica conosciuta, né di Strauss, né di Cajkovski. Era solo un'accozzaglia di note che insieme suonavano dolorosamente bene. Era la musica di Wyatt e Jaeden, dei loro ricordi, delle loro speranze, delle loro sofferenze.
Quella sera, Jaeden non fece altro che scrivere e suonare.
Scrivere su pentagrammi che erano diventati pentadrammi, scrivere sinfonie che erano diventate sinfobie.
Il cuore di Jaeden non batteva più.

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