capitolo tre

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Giugno 1916, San Pietroburgo.

Anastasija Nikolaevna Romanova aveva sempre avuto il vizio di arrampicarsi sugli alberi dell'enorme giardino del Palazzo d'Inverno, anche con gli abiti troppo ingombranti che le ostacolavano e non poco la salita.
Le piaceva starsene seduta sul ramo più alto, quello che le permetteva di avvicinarsi sempre più al cielo che sovrastava San Pietroburgo e la proteggeva dal mondo esterno.
Ma ad Anastasija non piaceva quel compromesso tra cielo e Russia, voleva strappare via quel velo azzurro e fuggire, volare verso le terre occidentali che sembravano così lontane.
Suo padre le raccontava di posti meravigliosi e le diceva anche che quei luoghi un giorno sarebbero entrati a far parte dell'impero russo e che avrebbe potuto visitarli quando voleva.
Così la piccola quattordicenne si alzava in piedi sul ramo e urlava il suo nome per ricordare a tutta la popolazione del continente che lei era là e che sarebbe diventata la zarina di tutto il mondo, nessun paese escluso. Anastasija era brava a sognare, ma non era brava ad obbedire a suo padre.
E dire che suo padre era Nikolaj Aleksandrovic Romanov II, zar di tutte le Russie, tutti gli obbedivano, tranne la piccola dai capelli lunghi e ramati e gli occhi azzurrissimi.
Perché se la granduchessa avesse davvero ascoltato suo padre e non si fosse arrampicata, non avrebbe di certo passato due giorni interi a letto con le ginocchia piene di graffi e tagli e il piede fasciato.
"Anya, perché fai così? Ti avevo detto di non arrampicarti." aveva sussurrato piano lo zar stringendo la mano di sua figlia tra le sue.
Era una delle rare volte in cui il cuore di ghiaccio di Nikolaj si scioglieva e da imperatore si trasformava in un semplice padre che amava la sua adorabile e numerosa prole in maniera spropositata.
Anastasija voleva un bene immenso a quell'uomo che la teneva abbracciata come se fosse la cosa più fragile del mondo, ma di certo non gli avrebbe mai e poi mai detto che tutto ciò che faceva, tutte le monellerie che combinavano erano per attirare l'attenzione di sua madre troppo occupata nel prendersi cura del figlio minore, lo zarevic Aleksej.
Così in tutta tranquillità rispondeva: "Mi annoiavo.", scrollava le spalle e poi mascherava il suo volto con un sorriso, quello più bello, per accattivarsi le grazie del padre.
E lo zar ci cascava sempre, perché lui non cedeva agli attacchi sulle frontiere, alle guerre, al malcontento e alle rivolte del popolo, ma cedeva al sorriso di sua figlia.
Vedendola in quelle condizioni, con le bende e tutto il resto, gli si scioglieva il cuore fatto di ghiaccio, come quello dei paesaggi tipici russi.
Nikolaj II non aveva mai viziato le figlie, perché il suo compito era quello di farle crescere forti ma sempre umili e sobrie.
Non avevano stanze lussuose o chissà quali comodità, anzi tutt'altro: la piccola Anya condivideva la stanza con la sorella Marija, di quattordici anni, e un bagno freddo alla mattina, uno caldo alla sera, una brandina senza cuscino era tutto ciò che avevano.
Ma quel giorno lo zar fece una piccola eccezione, così accarezzandole il capo con la mano chiese semplicemente "Vuoi che faccia qualcosa per te? Fra poco è anche il tuo compleanno."
Non era arrabbiato, non riusciva ad esserlo.
Sapeva che Anastasija era la svibzik della famiglia, la monella.
Tutti i suoi figli erano diversi tra loro: Ol'ga, la figlia maggiore ormai ventunenne, era conosciuta per la sua onestà, ma anche per la sua schiettezza, di certo non mandava a dire le cose.
Tat'jana, di diciannove anni, era chiamata dalle sorelle "governante" perché le piaceva occuparsi di tutti e tutto, sia della casa e delle faccende domestiche sia dei suoi famigliari.
Marija invece era considerata l'angelo della famiglia, di una tranquillità e di una disciplina fuori dalla norma, invidiata da tutti per la sua gentilezza infinita.
Il piccolo Aleksej, dodici anni era l'orgoglio di tutta la Russia, il successore di Nikolaij al trono.
Tutti si preoccupavano per lui, forse perché era l'unico maschio, forse perché era seriamente malato.
Poi c'era Anya, quattordici anni e una mente a colori: qualsiasi cosa poteva vivere nella sua fervida fantasia, nella sua testa.
Non si fermava davanti a nulla, era una bambina piena di vita, di gioia e allo stesso tempo molto furba e intelligente, nonostante la sua giovane età.
Era il pagliaccio di casa, un ragazzo mancato, si era detto, che amava bombardare i soldati del palazzo con pallottole di carta.
Non si poteva non amare quella bambina, come non si poteva odiare nessuno di quella famiglia, così dedicata al popolo come nessun altro.
Sul letto della sua cameretta, corrucciando la fronte pensierosa e con la mano sotto al mento per riflettere meglio, "Un pianista! Voglio imparare a suonare il piano." fu il desiderio espresso da Anastasija, giungendo le mani fra di loro e sorridendo apertamente.
Lo zar la guardò un po' stranito, chiedendosi cosa frullasse nella testa della giovane granduchessa. "Anya, ma hai già le lezioni di violino e di danza, e in più tutte le altre discipline.
Altri impegni ti stancheranno." disse diplomatico, come in tutto ciò che faceva.
Anastasija scrollò le spalle e abbracciò il padre più forte che poteva, un po' per accattivarselo, un po' perché erano giorni interi che non lo faceva. "Ti prego!" sussurrò al suo orecchio, piegando le labbra in una sorta di broncio di preghiera.
E no, lo zar vinceva tutte le guerre, ma non quella con sua figlia, la piccola Anastasija che otteneva sempre ciò che desiderava.

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