Capitolo 12.

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Giovedì 16 Febbraio.

Sono malato, Sophie, e non posso farci nulla.

Se quel giorno arriverà, tu non farmi addormentare...

Quelle frasi riecheggiavano nella mia testa da giorni, non riuscivano ad andarsene. Martellavano così violentemente il mio cervello che, a causa dei forti dolori alle tempie, non mi facevano dormire la notte. In bus dovevo restare in piedi sennò mi sarei addormentata, odiavo stare in mezzo al corridoio, ma non avevo scelta.
Gli scossoni della corriera mi creavano nausea e il mio corpo ne risentì. Ero stanca e debole, anche la mia concentrazione a scuola scese di molto. Quella conversazione con Marco, mi lasciò senza forze. Avevo accettato una promessa impossibile, un'impresa che anche il peggior pazzo del quartiere avrebbe rifiutato. Non sapevo cosa volesse dirmi con le parole "Non farmi addormentare". Forse voleva qualcuno accanto con cui non sentirsi solo, ma se quel giorno arrivasse, senza preavviso, come un lampo a ciel sereno, ed io non portassi a termine ciò che mi era stato chiesto con tanto sgomento, come potevo vivere con un rimpianto del genere? Non me lo sarei mai perdonato.

Ricordavo ancora vividamente quell'armadio pieno di medicine e di strani macchinari, che sarebbero dovuti servire per controllare i battiti del suo cuore. Prima di ritornare a casa, Marco mi fece vedere la sua cicatrice in mezzo al petto. Era grande da arrivargli fin quasi all'inizio dello stomaco. Una linea rossa carminio si faceva spazio lungo il suo torace latteo e ai lati i fori delle ricuciture, che il chirurgo aveva eseguito in un modo quasi maniacale, risaltavano ancora di più quella sottile sporgenza, al tatto liscia e morbida. Mi ritornò in mente una scena di quando ero piccola e mia madre, con ago e filo, mi cuciva vestiti e riparava i miei vecchi peluche. Mi diceva spesso «Tieni, ti ho ricucito l'orsetto, ma ricorda che non durerà per sempre, quindi stai attenta la prossima volta o dovrò buttarlo e non te ne ricomprerò degli altri» a quel tempo, non sapevo il significato di quella frase. Ero troppo piccola ed ingenua, ma quel giorno avevo capito che, anche se gli oggetti si riparavano, non ritornavano più come prima. Erano fragili come fogli di carta e sarebbero servite più attenzioni o avrebbero fatto la fine di tutte le altre bambole di pezza che avevo rovinato, buttate in un sacchetto dell'immondizia e dimenticate. Così era diventato Marco, una persona fragile ricucita troppe volte. Dovevo prendermi cura di lui, anche se non lo conoscevo bene, c'era quel pensiero fisso dentro di me che mi diceva di doverlo aiutare a qualsiasi costo, rendergli la vita più sopportabile.
Non avevo la minima idea da dove cominciare, ma un modo lo avrei trovato di sicuro.

Erano passati tre giorni dall'ultima mia visita improvvisa in quella sua camera ancora troppo poco vissuta. Mi aveva detto che sarebbe dovuto andare in ospedale per essere visitato e fare nuove analisi per controllare il suo stato di salute. Non poterlo vedere mi creava una certa angoscia dentro al petto, da pensare addirittura di uscire prima da scuola solo per andarlo a trovare. Purtroppo mi aveva proibito di farlo, forse perché si vergognava o aveva paura di cosa potessi scoprire riguardo la sua malattia.
Non volevo stare con le mani in mano.
«Terra chiama Sophie, che diavolo ti prede? Non senti nemmeno la campanella di fine lezioni adesso?» la voce di Clelia mi riportò alla realtà. Il suo sguardo preoccupato e al tempo stesso scocciato, mi faceva venire la nausea. Mi passò una mano davanti alla faccia per cercare di avere la mia attenzione.
«L'ho sentita» mentii «ora mi preparo, non c'è bisogno che tu me lo dica» risposi alzandomi e rimettendo velocemente tutti i libri dentro lo zaino.
«Anche oggi a colazione hai mangiato pane e acidità?» mi domandò sarcastica, nascondendo una risata.
Cercai di trattenerla anch'io, ma con scarsi risultati «Ma smettila, non sei divertente» dissi provando a mantenere un'espressione seria.

Tutti i miei compagni di classe se ne andarono senza salutarmi, l'aula era completamente vuota. Eravamo solo noi due in mezzo al silenzio più totale. Avrei preferito mille volte una classe di sole due persone, invece di ventisette ragazze che non ti rivolgevano minimamente la parola, già dal primo anno di liceo. Almeno mi sarei sentita sola in mezzo al vuoto, invece di essere giudicata con quegli sguardi colmi d'invidia e odio.
Non feci in tempo a scendere la scalinata principale dell'enorme edificio, che già Cecilia era corsa tra le braccia del suo ragazzo, l'aspettava ogni giorno vicino all'uscita. Si baciavano, si coccolavano ed io li guardavo da lontano, mentre il vuoto dentro di me si allagava sempre di più. Mi affrettai ad andarmene, non volevo vedere quella scena ancora per molto, avevo il voltastomaco. Non la salutai nemmeno, aprii direttamente il grande portone e i raggi solari mi punzecchiarono le guance, mentre il vento freddo invernale mi rendeva gelide le dita. In quei periodi avevo sempre le mani congelate, spesso si formavano ferite lungo le nocche, come se avessi preso a pugni un muro.

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