Capitolo 15.

271 34 99
                                    

Sabato 25 febbraio.

"Buongiorno Sophie! Metticela tutta oggi" erano queste le parole che leggevo da quasi una settimana, su un foglio appeso alla finestra di Marco. Era tornato lunedì a casa dall'ospedale, come mi aveva detto quel giorno all'ultimo piano di quell'edificio pieno di speranze distrutte, ma qualcosa era cambiato.
Non si faceva vedere spesso, alcuni giorni usciva di casa, con sua madre alle spalle, sempre a un preciso orario del pomeriggio per poi tornare verso l'ora di cena.
Una sera mi affacciai per salutarlo, ma quando cercai di aprire la finestra di camera mia, lui si accasciò a terra all'entrata del suo piccolo giardino, vicino al cancello pieno di edera rampicante. Aveva la testa bassa e una mano era premuta sul petto, come se stesse cercando di afferrare e togliere con forza un masso, per poter respirare di nuovo. A causa del rumore delle macchine e della poca luce dei raggi solari, nascosti dietro le montagne per far posto alle stelle e all'oscurità della sera, non riuscii a capire cosa stesse succedendo. In alcuni momenti, quando le auto smettevano di sfrecciare veloci sulla strada, si sentivano dei conati di vomito mischiati a colpi di tosse. La madre era scesa in fretta e furia dalla macchina e si precipitò verso Marco, per togliergli delle ciocche di ricci scuri da coprirgli il viso. Avevo percepito solo un singhiozzante "tra poco passa, vedrai che starai meglio". Di colpo, come un cane da caccia punta la preda, alzò velocemente la testa verso l'alto in direzione della mia finestra.
Quello sguardo cupo e allo stesso tempo disperato, mi fece tremare la spina dorsale. Ero pietrificata come se avessi visto per la prima volta un fantasma. Dopotutto, mi aveva avvisato della sua malattia, ma la situazione stava peggiorando sempre di più.

Non riuscii a trovare il coraggio di andare a fargli visita per sapere le sue condizioni. Chi volevo prendere in giro? Non ero una ragazza forte, avevo paura di tutto anche della mia stessa ombra e lui trovava la forza di scrivermi sui fogli di carta, ogni mattina alle sette in punto, un piccolo pensiero, anche con quel male che lo logorava dall'interno. Di solito rimanevano appesi per tutta la giornata, altri per più tempo ancora, ma cercava sempre di essere originale nel suo piccolo. Io invece mi nascondevo alle minime difficoltà, rendendomi inutile e allo stesso tempo una vigliacca.
Forse non sarei mai cambiata, se non avessi fatto in tempo a mantenere la promessa fattagli un po' di tempo fa. Avevo mille domande nella testa, ma sapere le risposte mi mettevano il terrore. Allo stesso tempo, però, mi mancava la sua presenza, il suo sorriso e quello sguardo sempre perso tra un pensiero e l'altro, mentre mi scrutava con quegli occhi chiari da vederci un prato in primavera durante le prime luci dell'alba. Mi mancava sentire tutte le sue stagioni, lui era dentro a ognuna di esse.

In quei giorni, un vuoto enorme cresceva dentro di me, penetrando nella carne fin dentro le ossa e al midollo a causa della morte di mia nonna. Era stata spazzata via un'intera infanzia passata quasi sempre con lei, dentro la sua casa con l'odore di sugo al pomodoro che impregnava la cucina, ma in quel periodo era diventata spoglia e fredda come il gelo. Per non mancare la quantità di studio arretrato da recuperare il prima possibile, per non prendere l'ennesima insufficienza. Entrare in quella classe era come varcare l'inferno, un ciclo continuo di sguardi annoiati e perfidi, mentre ridevano delle sfortune altrui. Ogni tanto Clelia mi parlava delle sue giornate e delle notti infuocate passate con il ragazzo il fine settimana, mentre io ero a piangere davanti la tomba di mia nonna.

«Sophie, che hai 'sti giorni?» mi chiese una mattina prima che la pioggia iniziasse a punzecchiare le vetrate della classe «mi sembri strana» continuò poco dopo.
Quella domanda iniziò a darmi sui nervi, come se non sapesse già cosa stessi passando e tutto il casino che avevo dentro. Non parlavo molto di me, ogni tanto mi capitava di raccontarle la mia situazione, ma la solita semplice frase «passerà, è normale» le riempiva la bocca ogni volta provassi a confidarmi. Come se tutti i dubbi, le incertezze e le angosce di una ragazza in cerca di aiuto fossero poco importanti, inutili.
Non risposi a quella domanda, accennai a un'alzata di spalle per farle capire di continuare quel suo assurdo discorso.
«Ascolta, io sono tua amica e puoi parlarmi di qualsiasi cosa, ma se non mi dici niente non posso aiutarti. Se non riesci, potresti anche andare da qualcuno che lo fa di professione. Ci dovrebbe essere uno psicologo qui a scuola, non l'ho mai visto, ma potresti chiedere in segreteria» finì quell'orribile frase con un sorriso dolce e confortevole, come se avesse trovato la soluzione a tutti i miei problemi.

Non farmi addormentare.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora