Capitolo 7.

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Lunedì 30 Gennaio.

Erano passati diversi giorni e Marco era come sparito. Nessuna lettera, nessun messaggio appeso alla finestra e nessuna visita. Mi mancava.
Dopo tutto quello che era successo, me lo sarei aspettato finisse così. Nascondeva qualcosa più grande di lui, un segreto che forse nemmeno io avrei mai compreso. Volevo parlargli, irrompere a casa sua ed abbracciarlo, ma ero come bloccata.
La mia vita scorreva monotona, senza senso. A scuola non andavo molto bene, i miei genitori erano preoccupati per me. Mi dicevano che avrei dovuto studiare di più, che mi sarei ritrovata male in futuro e non sarei mai riuscita a diventare qualcuno.
Invece di spronarmi ad essere più forte, mi umiliavano. Mia madre me ne diceva di tutti i colori e mio padre si faceva vedere sempre di meno. Ero diventata una nullità, la vergogna dei miei genitori.
Solo una persona mi rendeva le giornate un po' meno buie; Jonia. Era l'unica che mi capiva e mi ascoltava, senza dirmi frasi scontate solo per accontentarmi. Non vedevo l'ora suonasse la campanella della ricreazione per andarla a trovare, mi dimenticavo anche di Cecilia ogni tanto. Ormai pensava solo al suo nuovo ragazzo. Si faceva sentire raramente fino al più totale silenzio, la vedevo solo a scuola e mi parlava in continuazione di Francesco. Era il mio migliore amico delle medie, ma a lungo andare la nostra amicizia si sgretolò lentamente fino a diventare dei monotoni conoscenti. Lui prese strade diverse, ma qualche volta ci vedevamo a casa sua, fin quando non conobbe per caso la mia amica l'estate scorsa.
Mi era rimasta solo Jonia; le mattinate erano meno pesanti con lei. Mi raccontava di quando era bambina e passava giornate spensierate con sua sorella in un piccolo paesino dell'Albania insieme a tutta la sua grande famiglia piena di cugini. Mi faceva sentire meno sola.

Il rumore delle porte scorrevoli dell'autobus mi ridestò dai miei pensieri. Ero già arrivata alla mia fermata.
Mi sbrigai a scendere, presi lo zaino e misi le cuffiette del mio mp3 dentro la tasca del mio cappotto. Salutai l'autista e me ne andai verso la via di casa.
Era l'una e mezza del pomeriggio e il mio stomaco iniziava a brontolare. Sapevo però che a casa non avrei trovato nessuno. Mio padre non sarebbe tornato prima delle tre e mia madre dovette andare di corsa in ospedale, mia nonna ebbe l'ennesimo attacco di ictus. L'avevo saputo un'ora prima di uscire da scuola con un messaggio sgrammaticato di mio padre.

Mi ero dimenticata le chiavi a casa e avrei dovuto citofonare a mio nonno, ma non volevo disturbarlo. Affrettai il passo e presi la stessa strada dell'altra volta. Decisi che era il momento di andare nel mio posto segreto. Me lo fece scoprire un mio vecchio amico d'infanzia; Lorenzo. Mi diceva che quel luogo era magico, alleviava ogni ferita al cuore. Piangevamo insieme quando ci capitava qualcosa ed il rumore del mare ci faceva ritornare il sorriso. Molte volte ci rincorrevamo per la spiaggia ghiaiosa e ritornavamo a casa con tante sbucciature alle ginocchia. Solo lui sapeva come farmi divertire.
Dopo la scomparsa di suo padre era cambiato completamente. Litigavamo per tutto e alla fine un giorno di inizio autunno scomparve, lasciandomi sola in quel posto abbandonato da Dio.
Le lacrime iniziarono lentamente ascendermi, le potevo sentire scorrere, mi riscaldavano le guance arrossate dal freddo. Quanto avrei voluto ritornare indietro, rivivere quei momenti spensierati, ma col tempo sono diventati granelli di polvere nell'aria. Ero una bambina felice prima, ormai non sapevo nemmeno chi ero diventata.

Corsi verso il salice piangente e mi sedetti sotto i suoi rami scheletrici, alcune foglie secche erano ancora attaccate e vibravano leggere, trasportate dal vento come corde di chitarra.
Mi portai le ginocchia al petto per non sentire freddo, ma i brividi arrivarono imperterriti dietro la schiena diramandosi in tutto il corpo. Assomigliavo a quelle foglie senza vita, inutili per la sopravvivenza di quell'albero dormiente. Sarebbero state sostituite da altre più belle e di un verde smeraldo più acceso. Nessuno le voleva, nemmeno i rami che cercavano in tutti i modi, aiutati dal vento, di cacciarle e farle cadere a terra, morenti ed inermi. Sarebbero marcite ai suoi piedi e calpestate da piedi ignoti, dimenticate da tutti.

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