Capitolo 20.

266 30 135
                                    

Sabato 25 Marzo ore 17.00.

La pioggia scrosciava imperterrita sulle case del mio quartiere. I tetti erano pieni d'acqua e alcuni rivoli scorrevano lungo le fughe, passando per gli scoli in ferro, fino ad arrivare al suolo, offuscandosi col ticchettio incessante delle gocce biancastre. Le strade erano completamente bagnate e le ruote delle auto sull'asfalto slittavano a tal punto da lasciare il segno del loro passaggio; onde artificiali di un malinconico mare.
Le chiome rigogliose degli alberi, ormai in primavera, avevano assunto un verde più intenso da oscurare l'orizzonte, come se delle stille nere di petrolio si fossero mischiate nel pennello di un pittore maldestro. Avevo lo sguardo inibito dal paesaggio di periferia, in cui annegavo ogni mio pensiero. La finestra della mia camera lasciava scorgere quel paesaggio come la cornice di un vecchio dipinto appeso in un museo. Anche se, il vetro scuro, nascosto dalle tapparelle della casa a fianco, mi riempiva il cuore di tristezza e paura.
Scostai lo sguardo da quel desolato panorama per puntare i miei occhi verso il comodino attaccato al mio letto. Proprio sotto l'abat-jour, vicino al pacchetto di fazzoletti e la sveglia, avevo appoggiato il cercapersone di Marco. Lo avevo conservato come una reliquia e, ogni ora del giorno e della notte, mi precipitavo a guardare se fosse funzionante o se le batterie si fossero scaricate. Avevo il terrore di sentire quel suono martellante e quella lucetta rossa intermittente scatenarsi all'improvviso, come un uragano inaspettato. Ero sempre in allerta e guardavo ogni tanto il vialetto del giardino dei vicini, per cercare un minimo indizio riguardo la salute di Marco.

Dall'ultima volta in cui lo vidi, ritornai solo una volta da lui. Volevo fargli vedere l'alba e per quell'occasione avevo saltato le lezioni di scuola, solamente per restare il più possibile in sua compagnia. Avevo messo la sveglia alle cinque di mattina per prendere il primo autobus verso l'ospedale in cui era ricoverato. Alla fine, era sempre la stessa tratta che facevo per andare a scuola, ma con largo anticipo. Le strade erano deserte e il nero della notte iniziava lentamente a schiarirsi. Avevo il terrore negli occhi, quelle ore non erano le migliori ed essendo uscita di casa, cercando di fare il minimo rumore per non insospettire i miei genitori, senza la minima accortezza di pensare a cosa stessi andando incontro, non poteva portarmi a nulla di buono. Controllavo ogni secondo la batteria del telefono, pensando di non averlo caricato abbastanza per poter chiamare aiuto se fossi stata in pericolo. Era l'idea più sbagliata e malsana che avessi potuto compiere nella mia breve vita, ma per Marco avrei accettato il rischio, sempre. Fortunatamente il bus arrivò in perfetto orario e, in meno di venti minuti, arrivai alla fermata più vicina al"Giardino Verde", in modo da potermi intrufolare alle sei e mezza di mattina tra i corridoi dell'ospedale. Gli orari di visita erano da poco aperti e la paura di essere fermata da qualche infermiere troppo invadente non si era ancora impossessata del mio corpo. La sala d'attesa era ancora poco illuminata dalla flebile luce artificiale del corridoio e ricordava tanto un vecchio film di Stanley Kubrick, dove solo la mia poca sanità mentale mi divideva dal non perdere del tutto il senno. Le porte delle stanze dei pazienti erano quasi tutte chiuse, tranne alcune dove delle infermiere passavano per dare la colazione e piccoli contenitori di medicine ai pazienti. Una di loro aveva alzato la testa a causa di una presenza in mezzo a loro: la mia. Presa dal panico, avevano cominciato a tremarmi le ginocchia; era così labirintico quel posto, che anche Teseo si sarebbe perso tra quegli androni infernali, anche con il filo rosso annodato al ventre. Con passo svelto, mi affrettavo a prendere l'ascensore per fiondarmi verso il reparto e la stanza di Marco. La porta aveva cigolato di poco, ma lo spettacolo che mi attendeva dentro, non era paragonabile a nient'altro. Macchinari di qualsiasi genere erano attaccati al suo corpo, ogni oggetto potesse stabilire anche il minimo sussulto del suo cuore si trovava all'interno di quella piccola camera troppo bianca e sterile. Le sue iridi si spostavano velocemente da una parte all'altra sotto le palpebre, da nascondere tutti gli incubi ai quali non voleva esserne partecipe. La fronte sudava e il viso si muoveva a scatti, per cercare di asportare quel sogno dalla sua testa. Forse era anche uno dei tanti motivi per cui passava le notti in bianco: cercare di sfuggire ai rimorsi e ad una morte sempre più vicina. Avrei voluto entrare nel suo cervello e togliere tutte le paure e i turbamenti solo per rendergli la vita più sopportabile; fargli dimenticare dell'oscurità che lo stava risucchiando. Era così deperito, da non avere più il coraggio di guardarlo. Non potevo rimanere come uno spettatore in lacrime, alla vista di un finale tragico di un'opera teatrale; quella era la realtà e non sarei potuta scappare da nessun altra parte.

Non farmi addormentare.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora