Capitolo 17.

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Le settimane passavano inesorabili. Tra le pieghe del tempo, io e Marco rubavamo momenti insieme per renderci legati da un solo destino. Non riuscivamo più a stare separati, quasi tutti i giorni lo convincevo a venire con me in qualsiasi luogo. Al mare, in città, tra le campagne tutto sapeva di noi, delle nostre risate sotto gli alberi di pino, del volerci rincorrere tra i prati incolti, mentre i nostri occhi si inebriavano delle sfumature del cielo e dell'innocenza dei bambini.

Eravamo entrati segretamente in biblioteca, un mercoledì pomeriggio, per restare a studiare, ma i nostri visi si cercavano tra gli scaffali invecchiati di polvere, tra storie mai vissute pronte ad essere lette da milioni di occhi, mentre le pagine ingiallite dalle mani e dal tempo scorrevano tra le dita di gente curiosa e sopraffatta dal sapere.
La polvere dei raggi solari si mischiava a quella della biblioteca, formando in controluce milioni di particelle bianche, simili a piccole stelle di un universo in cui noi ne facevamo parte: due galassie in rotta di collisione pronte ad esplodere in milioni di atomi. Il suo volto era chino su una storia di Oscar Wilde, il sole illuminava di striscio la sua sagoma, accarezzandogli le guance e il corpo, seduto su uno sgabello tra un corridoio e l'altro. Io ero intenta a guardarlo da lontano, quella sua espressione piena di sofferenza, mentre leggeva una storia in cui avrebbe voluto rimanerci per sempre, al posto di quella orribile realtà, senza un futuro e senza sogni; quel suo respiro lento e gentile, per mantenere tranquillo un buco nero che lentamente divorava ogni organo vitale, rendendolo inerme, mi offuscava la mente e la ragione. Tutto di lui sapeva di estate. Un bambino stanco di restare a casa aspettava il ritorno delle giornate calde, per uscire di nuovo a riempirsi gli occhi di nuovi colori ed emozioni. Così era lui, stufo della sua malattia provava a godersi ogni attimo di libertà, fuori da mura troppo strette e claustrofobiche di case senza ricordi e ospedali pieni di malinconia.

Un venerdì pomeriggio, troppo caldo e anomalo per il mese di Marzo, avevo preso la mia bicicletta e attaccati stretti come calamite per non perdere il baricentro, avevo reso quel giorno noioso in qualcosa di speciale agli occhi di Marco. Mentre pedalavo, sentivo le sue dita stringermi con forza i fianchi, aveva paura di cadere, ma se avesse saputo che il suo peso fosse stato irrilevante per poter perdere le redini della bicicletta, ci sarebbe rimasto male. Stava piano piano diventando uno scheletro vivente; l'ombra di se stesso. Il vento gli pizzicava le guance e animava le ciocche ricce leggermente accorciate, mentre le sue braccia tremavano di freddo anche se il cielo era colmo di un azzurro intenso, col sole cocente picchiare sulle nostre teste.

«Dai non essere teso, rilassati e goditi il paesaggio» avevo urlato per sovrastare l'ululare del vento, causato dal movimento veloce della bicicletta.
«Non ne sono poi tanto sicuro, e se cadiamo? Mia madre mi ucciderà» diceva impaurito senza mai staccarsi da me. Aveva appoggiato la testa sulla mia schiena e sentire la sua guancia toccarmi il collo e i capelli intrecciarsi ai miei come dita che si sfioravano, mi solleticavano la pelle esposta alle intemperie, procurandomi brividi in tutto il corpo.
«Fidati di me, non cadiamo. Se non succede ti offro un gelato» ridevo come una bambina a quelle parole innocenti quasi da renderci invincibili davanti a tutto.

In quell'istante la sua presa si era fatta più leggera fin quasi a non sentire più le sue dita stringermi la giacca. Mi sentivo vuota senza quel contatto, stavo quasi per chiedergli di nuovo di aggrapparsi a me, ma appena voltai lo sguardo verso di lui, con la coda dell'occhio notai un braccio teso verso l'esterno, mentre le dita si distanziavano sempre di più, una dall'altra, per far entrare più aria possibile tra le pieghe della pelle. Un enorme sorriso si era fatto spazio sulle mie labbra. Un urlo di felicità vibrava tra le corde vocali di Marco, da far tremare i timpani e il cuore, mi batteva così veloce da far sbocciare dentro di me nuove emozioni mai provate prima. Era il suono dell'essere vivi.
«Te lo avevo detto!» gridavamo a squarciagola senza ritegno, anche più del rumore dello strido delle rotaie sotto l'enorme peso dei treni. Ci passavano accanto con una velocità impossibile da raggiungere, quasi a poterli sfiorare sulla ferrovia piena di erbacce e ghiaia scura. Non ci importava cosa la gente pensasse di noi, volevamo solo provare attimi di pura follia.

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