Non si può intrappolare qualcosa di eterno in qualcosa di effimero

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Ricordo il profumo della brezza marina mentre camminavo verso il mercato e il rumore delle onde non troppo lontano.
Uomini e donne sedevano sulla spiaggia a rammendare le reti, mentre un vociare squillante, caotico e famigliare proveniva dalla piazza.
Si stava avvicinando la bella stagione, quella in cui le ville si ripopolano della ricca gente che passeggia sul lungo mare.
Da noi potevi essere poche cose: la moglie di un marinaio, quella di un contadino, una cameriera o la moglie di un operaio al cantiere navale, nulla di più o di meno.
Ma erano altri tempi e lo idealizzavamo tutte, il matrimonio.
Intanto, nelle frizzanti primavere, quando non c'era ancora la calca della ricca gente, tutti i ragazzi del posto avevano un luogo dove ritrovarsi.
Eravamo tutte persone per bene e si sapeva che un tempo anche i nostri genitori e i nostri nonni stavano lì, tutti fino a che non nasceva il primogenito.
Mi piaceva così tanto lì, come se fosse ci fosse una bolla impermeabile ai problemi e la fatica scivolasse dalle spalle.
Lì c'erano i corteggiamenti, qualche bacio rubato, qualche bisbiglio sulle vicende del posto e poi ballavamo, con più entusiasmo che alle feste del paese.
Era speciale.
Tutti ci conoscevamo, c'era sempre qualcuno che ti avrebbe ascoltato ed era il punto in cui nasceva la nostra comunità, più che in chiesa.
Fu sorprendente quando il Marco di Franco, che viveva su al bracco, ci presentò il nuovo arrivato alla pensione.
Era un tipo tranquillo, di quelli che perderesti nella folla, con lineamenti normali e un temperamento pacato. Lui era mimetico e forse ciò lo rendeva un po' insipido.
Si ambientò subito, con una velocità disarmante per noi.
Era spontaneamente uno di tutti.

Poi qualcosa cambiò ed alcuni di noi smisero di frequentare la spiaggia, non solo per il cielo e le sue promesse di un'estate florida.
Il dissidio profilava come le formiche e tutti, sopratutto gli anziani, si aggrottarono, incattivirono e mantenevano sgarbatamente la distanza.
Come una nebbia, quella strana sensazione di insicurezza si era abbattuta su tutti noi.
Anche mio fratello fece la sua parte e cercò di tenermi lontana dalla spiaggia, convinto che fosse quello l'epicentro del nostro disagio.
Ripeteva di stare lontano dal gruppo, ma io non trovavo ragioni veramente logiche, oppure c'erano ma la mia ingenuità mi accecava.
Stanco di vedermi sfuggirgli tra le dita come la sabbia, iniziò ad accompagnarmi, mentre io mi amalgamavo alla folla della solita gente, dei soliti volti, delle solite voci.
Si parlava di bestie nuove, della Marchesa nella villa gialla, delle nozze di Giulia e quelle di Vera, oppure del pescato, della parrocchia e altre notizie a cui i più davano peso.
Una sera come le altre, quel tipo che aveva portato il Marco di Franco, che viveva su al bracco, mi chiese un consiglio.
Aveva sentito dire che ero brava con il ricamo, che a volte aiutavo mia mamma o le suore nei lavori di sartoria e sperava che potessi confezionargli un regalo per la sua promessa sposa, da cui sarebbe presto tornato.
Affascinata com'ero dal romanticismo e ammaliata dalle monete che mi aveva mostrato come futuro compenso, accettai subito.
Ci misi pochi giorni a ricamare un fazzoletto, classico simbolo di interesse amoroso, con una cornice di fiori selvatici e le iniziali della ragazza, L.F.
Intanto avevo incontrato spesso quel ragazzo per capire cosa volesse nel regalo ed eravamo diventati amici, sempre più in confidenza.
Mi aveva raccontato dove era stato e dove intendeva andare, cosa aveva visto, cosa gli mancasse di casa e mi aveva parlato della sua innamorata, della promessa fattale prima di partire e del corteggiamento durato mesi.
Definirmi estasiata nell'ascoltarlo sarebbe stato insufficiente: nelle piccole cose, nei gesti concreti, parlava di un'ebrezza che per me era ancora lontana.
La sera che conclusi il fazzoletto, ci incontrammo sulla spiaggia.
Sentivo mio fratello vigilare su di me in lontananza e gli lanciai anche un paio di brutte occhiate per questo, per la sua mancanza di fiducia in me e nelle mie decisioni.
Comunque anche lui lo notò e ne fu disturbato, tanto da propormi di fare una passeggiata, perché tirare fuori soldi sotto gli sguardi degli altri non gli sembrava confortevole.
Innocuo com'era, accettai e facemmo qualche passo sul bagno-asciuga.
Dopo un paio di chiacchiere di circostanza, effettuammo lo scambio e io mi avviai verso gli altri con un sorriso soddisfatto in volto, ma quel tipo mi fermò.
Si era soffermato a guardare il mare, immenso, sublime, mutevole e fluido, interrogandomi, o interrogandosi, su perché non si possano imprimere certi spettacoli nella mente ogni volta che si chiudono gli occhi.
Risposi molto goffamente, ricordando una predica del don: "non puoi intrappolare qualcosa di eterno in qualcosa di effimero".
Lui sorrise e mi guardò con una tale calma, in un modo così rilassato e confortante, che il mio cervello ci mise minuti interi a elaborare gli istanti seguenti.

Mi aveva presa e strattonata, spinta verso le onde, non solo nel punto in cui si riversavano sulla spiaggia, ma aveva fatto forza per portarmi verso l'essere totalmente sommersa.
L'aria venne presto a mancare e tentai guardarlo, di aprire gli occhi, di capire, ma questi bruciavano ed era tutto sfocato, imbrunito anche dai miei capelli, che fluttuavano attorno a questa immagine, a queste braccia che mi tenevano il collo, troppo forti per strapparle via.
Prima tentai di trattenere il fiato, ma il panico prese facilmente il sopravvento e abboccai come una disperata, con un dolore e un bruciore nello sterno, che non pensavo si potesse provare.
Vedevo le bolle d'aria uscire dal mio corpo e pregavo che tornassero indietro, di resistere.
Mi dimenavo furiosamente, con un'agitazione mai provata prima, per questo non mi accorsi neanche di essere stata soccorsa.

Qualcuno mi aveva liberata, poi tirata in superficie, stretta a se e posata sulla riva.
Sputavo più acqua di quanto pensassi potesse stare nel mio corpo e per poco non vomitai, tanto il mio diaframma si sforzava per far ricircolare l'aria in me.
Due ragazze con cui giocavo da bambina mi stavano supportando, mentre vedevo mio fratello e due sue compari avventarsi sul mio assalitore.
Era così innocuo, così docile e uguale a noi, tra di noi...nascosto in bella vista...poi, dal nulla, era scoppiato come una bomba, investendomi e distruggendomi.

Le cose, da lì cambiarono.

Tra il suo arresto e il giorno del verdetto, nessuno di noi uscì di casa più di quanto non fosse necessario, specialmente io.
In realtà da quel giorno cambiò tutto: il mio concetto di cautela e quello di sicurezza.
Tutti nel paese conobbero la parola "diffidenza" in una sua forma molto più incisiva e spaventosa, che ci condizionò in modi inaspettati.

Nei sogni non sparisce mai il dolore di affogare, la mancanza di aria, il soffocamento...è davvero indelebile.


Angolo scrittrice
Avrete capito che questa non è una OS di Anna, ma qui ho un pubblico più ampio.
Questa storia può parlare di tante cose: violenza, psicopatia, ma sopratutto il pericolo dietro qualcosa che può sembrare innocuo.
Penserete che sia assurdo, ma è tutta una metafora sul coronavirus.
Nessuno di noi l'ha visto arrivare, ma ci ha cambiati, isolati e ha ferito alcune persone affogandole nella malattia e togliendogli il respiro.
Vedere l'intervista che hanno fatto a un ragazzo di Torino in terapia intensiva mi ha spaventata più di tutte le leggi e le limitazioni; un organismo quasi vivente che soffoca le persone e gli fa patire quello che subisce la protagonista della storia...peggio di un horror.
Allora penso sia meglio stare a casa, cucinare e ingrassare malgrado la prova costume, che rimandiamo al 2021.
#iostoacasa

Oltre ogni aspettativa di AnnaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora