4 - Luigi Olivari

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13 Ottobre 1917

Mattina, base aerea di Santa Caterina, sede della 91a Squadriglia Caccia, nei pressi di Campoformido, Udine



La conversazione, al tavolo dove i piloti della squadriglia stavano facendo colazione, era tutta dedicata alla Germania. Da qualche giorno, e per la prima volta dall'inizio della Grande Guerra, gli aeroplani tedeschi erano comparsi sul fronte Italiano. Segno evidente che l'esercito Russo, ormai prossimo a sfaldarsi del tutto, non rappresentava più una seria minaccia per gli Imperi Centrali. E le forze prima impiegate in oriente venivano ora dirottate sui fronti occidentali: Francia e Italia.

E da quando erano spuntati anche gli aviatori tedeschi, i piloti della Novantunesima erano chiamati a giornate intensissime per arginare l'ondata di nuovi avversari. Giornate che stavano logorando un po' tutti. Occhiaie, pallore, nervi tesi.

— Dov'è Gigi? — chiese Fulco Ruffo di Calabria, guardandosi in giro mentre, con il cucchiaino, spingeva a fondo un tozzo di pane raffermo nella sua scodella di caffè-latte. Non erano molti i piloti che potevano permettersi di bere caffè-latte prima di volare: la maggior parte preferiva bevande più digeribili. Ma lo stomaco del Principe era d'acciaio.

— All'hangar. L'ho visto parlare con uno dei meccanici, — rispose Ferruccio Ranza, uno dei piloti più titolati della squadriglia. Un viso rotondo e simpatico, il sorriso pronto a spuntare in ogni momento da sotto i baffi.

— Come sta? — si informò Baracca che, in quanto comandante, aveva diritto al posto a capotavola.

— È sempre più stanco, — continuò Ranza. — E ha una brutta tosse. Oggi dovrebbe volare con me, credo.

Francesco Baracca finì il suo the e si alzò in piedi. — Vado a parlargli, — annunciò.

— Ti accompagno? — chiese Ruffo.

— No. Voglio parlargli da solo. Chissà che non si apra un po'.

Baracca uscì. Faceva freddo e il cielo era coperto di nuvole. L'inverno sembrava volersi presentare in anticipo, quell'anno.

Quasi involontariamente, il maggiore si controllò il colletto rosso della giubba della sua uniforme di Cavalleria. Riteneva che un ufficiale dovesse essere sempre impeccabile nel suo aspetto. Sempre e comunque.

Una breve passeggiata e si ritrovò all'hangar. Lo SPAD VII di Luigi Olivari era già stato tirato fuori. Il pilota non aveva scelto un simbolo per decorare la fiancata della fusoliera, come i compagni di squadriglia, ma aveva invece deciso di far dipingere di rosso vivo il cupolino del motore. Alla base era arrivata voce che gli austriaci l'avevano ribattezzato Diavolo Rosso.

Di certo Olivari, con le sue dodici vittorie accreditate, era uno dei migliori.

Il giovane, che non indossava ancora il giaccone da volo, stava discutendo con il meccanico, indicando ora l'elica, ora uno dei tubi di scappamento.

— Olivari! — lo chiamò Baracca.

Il giovane si interruppe e voltò lo sguardo al suo comandante. I suoi occhi erano arrossati, la carnagione a pallida, due rughe gli scavano il viso magro.

— Signor maggiore!

— Mi concede due parole?

— Certo. — Olivari impartì le ultime indicazioni al meccanico poi, con passo incerto raggiunse il suo comandante. — Mi dica...

— Gigi, ma non potremmo darci del tu, come tutti?

Il giovane cercò di sorridere, riuscendoci a fatica. — Signor maggiore, lei è un ufficiale di Cavalleria...

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