13 - Antonio Riva

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27 Ottobre 1917

Alba. Base aerea di Santa Caterina, sede della 91a Squadriglia Caccia, nei pressi di Campoformido, Udine



Uno degli hangar della Novantunesima squadriglia brulicava di persone. Gli aerei erano stati ammassati il più possibile lungo le pareti dell'enorme capannone, e al centro era stato ricavato un ampio spazio. Tutto il personale della Novantunesima e della Settantesima squadriglia erano allineati in maniera piuttosto informale, benché sull'attenti, con i piloti in prima fila e il resto degli uomini alle loro spalle.

Di fronte a loro, il comandante del Decimo Gruppo Caccia, il tenente colonnello Pier Ruggero Piccio, e con lui i comandanti delle squadriglie del gruppo, tra cui Baracca, oltre a un altro pilota, in tenuta da volo. Insieme a un'altra decina di piloti era atterrato a Santa Caterina la sera prima. I loro caccia, degli Hanriot color argento, erano allineati fuori dall'hangar.

— State comodi, — disse Piccio, e tutti si misero in posizione di riposo. — Conoscete il capitano Riva? È il comandante della Settantottesima Squadriglia Caccia.

Antonio Riva era un volto conosciuto dai piloti di Santa Caterina, meno dal personale di terra. La sua squadriglia, di cui aveva assunto il comando solo un paio di settimane prima, faceva anch'essa parte del Decimo Gruppo ma era dislocata più vicino al fronte, a Borgnano. L'uomo se ne stava un po' in disparte, quasi provasse soggezione a trovarsi vicino a Piccio, ma scambiò un'occhiata con Francesco. Erano passati solo cinque giorni da quando Baracca era stato costretto ad atterrare in quell'aeroporto, ma gli eventi delle ultime ore avevano cambiato tutto: sembravano passati mesi.

— Sarò brevissimo, perché abbiamo una montagna di cose da fare, — cominciò il comandante del Gruppo. Scandiva le parole e parlava con una marcata cadenza romanesca. — Però ci sono alcune comunicazioni importanti.

Prese fiato, grattandosi una guancia scarna. Piccio, con i suoi 37 anni, era decisamente più anziano degli altri piloti del suo Gruppo. Tuttavia, appena possibile, abbandonava le scartoffie per salire sul suo SPAD: era un pilota da caccia fenomenale che, nonostante gli impegni alla scrivania, era già riuscito ad abbattere sedici avversari. Un uomo duro e severo, ma giusto e pronto a qualsiasi sacrificio per il bene dei suoi piloti.

— In primo luogo, voglio farvi i miei complimenti. Ieri, 26 Ottobre 1917, è una data che noi del Decimo Gruppo ricorderemo, e di certo lo faranno anche gli storici. Ieri, i nostri piloti, cioè voi, avete compiuto cinquantasei sortite e sostenuto diciotto combattimenti. Avete abbattuto ben sei velivoli nemici, e non avete riportato alcuna sconfitta.

Baracca ammiccò a Costantini, che se ne stava in un angolo con le braccia conserte e una sigaretta che gli pendeva dalle labbra. Annuì, e sorrise: se due delle vittorie del giorno prima erano attribuite congiuntamente a Baracca e Parvis, un'altra era dello Zio Meo. Lo sguardo del Comandante della Squadriglia proseguì poi sui suoi piloti, sul lato destro della prima fila. Nei loro occhi c'era soddisfazione e gratitudine per l'encomio dal loro comandante. Eppure nelle loro espressioni Francesco riusciva a scorgere anche l'angoscia per aver perso, il giorno prima, due colleghi e amici come Sabelli e Ferreri. Ferruccio Ranza, in particolare, sembrava particolarmente scosso: occhi arrossati, sguardo vacuo, muscoli della mascella contatti.

— Quello che avete fatto e state facendo in questi giorni deve riempirvi di orgoglio, — continuava il Comandante.

Baracca gli gettò una veloce occhiata. Strano che Piccio si dilungasse in discorsi così pomposi: era un uomo pragmatico, che andava subito al sodo delle cose. I paroloni, di solito, preferiva lasciarli ai generali. "È probabile," ragionò Francesco, "che Pier abbia deciso di dare il dolcetto prima dell'amara medicina." Ciò che Piccio stava per comunicare era già noto ai comandanti di squadriglia.

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