15 - Pier Ruggero Piccio

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28 Ottobre 1917

Poco prima dell'alba. Base aerea di Santa Caterina, sede della 91a Squadriglia Caccia, nei pressi di Campoformido, Udine



Francesco Baracca si rigirò sul materasso appoggiato sulle piastrelle bianche e nere del pavimento e gettò un'ennesima occhiata fuori dalla finestra. L'alba sembrava non voler mai arrivare.

Era sudato, ma allo stesso tempo infreddolito. E dentro lo stomaco sentiva una sensazione di vuoto che non aveva mai provato. E non era fame: lui e Piccio, gli ultimi rimasti nella base di Santa Caterina, avevano mangiato tutto quello che erano riusciti a ingurgitare in un festino per due che trasformava la disperazione e la tristezza in appetito nervoso. Tutto ciò che era rimasto nelle scorte alimentari, dopo la partenza degli uomini, era comunque destinato a essere distrutto: tanto valeva mangiare.

Con l'accendino accese una candela.

Il suo ufficio sembrava essere stato attraversato da un'orda di barbari. Cassetti aperti, ante spalancate, faldoni di carte – inutili scartoffie – gettate in ogni dove. L'odore di carta bruciata, pungente e fastidioso, che ristagnava negli angoli.

E il silenzio.

L'immane, insopportabile, silenzio che solo una base deserta può generare.

Lui e Piccio avevano parlato fino a tardi, mentre aprivano scatolette e affettavano salami. Avevano parlato dei bei vecchi tempi, quando volare era ancora solo una passione, quasi un mestiere ma non ancora un incarico, un ordine. E poi avevano rivangato episodi del passato più remoto, come quando Piccio era finito a fare, poco più che ventenne, il governatore di una provincia del Congo Belga, o come quando Baracca, la prima volta che aveva messo piede su un aeroplano, continua a richiedere al pilota che lo portasse più in alto, ancora più in alto!

E poi, esausti si erano ritirati per passare l'ultima notte a Santa Caterina, la base che era stata la loro casa per più di due anni. Avevano allestito dei giacigli di fortuna nei loro uffici e si erano dati la buonanotte, convinti che sarebbero crollati, esausti dopo una giornata di fatiche fisiche e mentali.

Invece Francesco non aveva chiuso occhio. Si spostava sul piccolo materasso di lana, la cui imbottitura era ormai nodosa, ora da questa parte, ora da quella, e poi guardava la finestra, sperando di poter scorgere un primo raggio di sole e porre fine a questa interminabile notte.

Ma era sempre buio.

Un sospiro, un'imprecazione appena borbottata. L'idea di sfruttare il tempo per scrivere una lettera a casa: sua mamma ci teneva a restare sempre in contatto con il figlio. Era orgogliosa delle sue imprese, ma non perdeva occasione per consigliarli di farsi dare un incarico più tranquillo, magari in una scuola di volo.

Poi, un nitrito. E zoccoli. Francesco conosceva bene quei suoni. In un lampo fu in piedi. Versò un po' d'acqua nella bacinella e si lavò velocemente il viso. Quindi allacciò la giubba e controllò che la sua divisa fosse perfettamente in ordine. Solo a quel punto corse fuori.

La prima cosa che lo colpì fu l'odore. L'amato, riconoscibile, odore di cavalli. Gli sembrò di essere ripiombato indietro di dieci anni, quando gli aeroplani non esistevano ancora (o quasi) e lui non sognava altro che fare fare una bella galoppata con la sua Nelly. Il piacevole pensiero come un lampo si materializzò nella sua mente, e come un lampo se ne andò, lasciandolo nella preoccupazione: chi era arrivato qui a cavallo? Il nemico? Avrebbero dovuto fare dei turni di guardia: nessuno sapeva con esattezza fino a dove si fossero spinte le truppe austroungariche e tedesche. Portò la mano alla fondina ed estrasse la rivoltella.

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