7 - Monoplano Hanriot

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28 Maggio 1912

Scuola di volo Hanriot, nei pressi di Reims, Francia



Il giovane Marcel Hanriot gli diede una leggera pacca sulla spalla. Francesco si voltò verso il suo istruttore.

Il ragazzo, figlio del titolare della scuola di volo, aveva appena diciannove anni ma era già uno degli aviatori più esperti del mondo. Quando aveva preso il suo brevetto, quattro anni prima, era il pilota più giovane della storia. Il suo sguardo, filtrato dai pesanti occhialoni, era incoraggiante. Annuì, chiudendo brevemente gli occhi, come a voler dire: "Ecco, ci siamo." Poi si fece passare il pollice sul collo, il gesto convenuto per: "Spegni il motore." Infine indicò davanti a loro, in basso, il campo di atterraggio.

Francesco si voltò di nuovo in avanti. Il motore rotativo spruzzava olio e lui sentiva la patina calda e unta che si accumulava sulle guance. Una cosa l'aveva imparata subito: sugli aeroplani conviene tenere la bocca chiusa perché quell'olio bruciato aveva un sapore peggiore dell'olio di ricino!

Sulla destra, all'orizzonte, la cupola della Cattedrale di Reims, il punto di riferimento che si doveva tenere d'occhio per impostare gli atterraggi.

Aveva già volato più di una dozzina di volte con il giovane istruttore, ma questo sarebbe stato il primo atterraggio con lui ai comandi. Fece un sospiro e ripassò nella mente tutte le procedure. Un'occhiata alla manica a vento poi girò il nottolino dell'alimentazione del motore.

Due o tre colpi crepitanti, poi il silenzio... rotto soltanto dal fruscio dell'aria che scorreva sulle ali, lungo la fusoliera, sul suo viso.

La mano del giovane Marcel gli strinse per un istante la spalla. Francesco interpretò il gesto come: "Coraggio, ce la puoi fare."

L'aria era calma, il sole basso tingeva le nuvole con calde tonalità rosate. Il monoplano Hanriot planava dolcemente verso il campo.

Con i piedi, Francesco premeva ora il bilanciere di destra, ora quello di sinistra, per imporre piccole correzioni di rotta al velivolo. Con la barra, che teneva stretta nella mano destra, manteneva l'assetto.

Il terreno si avvicinava. L'erba del prato smise di essere un verde uniforme e cominciò a mostrare le sue caratteristiche: chiazze più chiare, più scure, ingiallite che correvano sotto le ali del velivolo.

Valutò che doveva trovarsi a pochissimi metri da terra. Tirò con grande cautela la barra verso di sé per far rallentare il velivolo. Era l'operazione più difficile. Tirarla troppo avrebbe impennato il muso dell'aereo, portandolo in quella grave condizione che qualcuno aveva cominciato a definire "stallo". Tirarla poco avrebbe portato a un atterraggio violento, rischiando di impuntare il carrello nel prato, e proiettare l'aeroplano in una pericolosa, e disastrosa, capriola.

L'atterraggio fu impeccabile. Francesco si sentì avvampare: come sempre, l'essere riuscito a svolgere il suo compito alla perfezione gli generò un'intensa emozione. Avrebbe voluto gridare di contentezza ma si trattenne, limitandosi a schiudere le labbra in un largo sorriso.

Bravò! Bravò! — gridò Marcel. — Formidable!

Francesco si voltò verso di lui. — Merci. — Lui e i suoi quattro colleghi, tutti ufficiali italiani venuti alla scuola di volo Hanriot per diventare piloti, erano arrivati a Reims con solo un'infarinatura di francese: il minimo per comunicare alla meno peggio con i colleghi e istruttori locali. Ma le frequenti gite a Parigi, diurne o notturne, li avevano portati ad acquisire rapidamente una certa padronanza della lingua.

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