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All our times have come
Here but now they're gone
Seasons don't fear the reaper
Nor do the wind, the sun or the rain
We can be like they are

— Blue Öyster Cult, "(Don't Fear) The Reaper"



Roma, 21 marzo 2020

Ore 23:41

Sotto la luce arancio dei lampioni, la città in quarantena era livida e spettrale come lo scenario di un videogioco horror, o il prologo di un film post-apocalittico.

Il silenzio circostante amplificava il suono dei miei piedi che percuotevano rapidi l'asfalto: un secco ribattere ritmico che mi riempiva le orecchie e riecheggiava fra i palazzi alti e silenziosi come sfingi. Tranne un paio di brevi sortite per la spesa, era la prima volta che uscivo di casa da dieci giorni e, a guardarmi intorno, avrei potuto giurare di essere l'ultimo uomo sulla Terra.

Va bene — l'ultimo quindicenne sulla Terra.

Non era la prima volta che mi capitava di osservare lo spettacolo di una Roma deserta e silenziosa. Ogni romano, dopotutto, ha familiarità con i giorni di agosto trascorsi in città: i concittadini scappati nei luoghi di villeggiatura, i negozi con le serrande abbassate e i cartelli chiuso per ferie, i pochi abitanti barricati in casa, per sfuggire alla canicola.

Allo stesso tempo, quei giorni di quarantena erano del tutto diversi: la città era chiusa, ma era piena. Dietro le finestre e le porte serrate era possibile in ogni momento percepire, come una sottile vibrazione, i movimenti ansiosi delle persone costrette a rimanere in casa tutto il giorno. Migliaia, centinaia di migliaia, milioni di persone come formiche vaganti nei tunnel di un formicaio: persone stravaccate sul divano che guardavano serie tv una puntata dopo l'altra, persone acquattate davanti allo schermo del portatile, che lavoravano o studiavano da casa; persone che preparavano frugali pasti dopo aver visitato il supermarket con l'autocertificazione in mano, persone attente a rispettare la distanza di sicurezza e a sfregare le mani con l'Amuchina (posto che se ne trovasse ancora, dopo i saccheggi dei primi giorni), persone a cui forse non era rimasto altro da fare che camminare avanti e indietro, controllando in modo compulsivo le news sul cellulare. Quanti contagiati oggi, quanti morti? Quanti ce ne saranno domani? Quando finirà tutto questo?

La notizia della chiusura delle scuole era piovuta dal cielo come un'inaspettata benedizione divina, una manna dal cielo che sapevo di non meritare. Ma presto i decreti governativi si erano accumulati, ed erano arrivate le istruzioni perentorie di restare a casa. Nessun problema, avevo pensato, comunque devo ancora finire di vedere Sex Education, poi ci sono mille altre cose su Netflix e ho sempre Red Dead Redemption II, posso giocarci letteralmente all'infinito.

Dieci giorni di reclusione ed ero impazzito. Avevo urlato in faccia a mia sorella, litigato con mio padre, litigato con mia madre. Avrei litigato con Gardenia, la nostra impassibile gatta persiana, se non fosse stata — appunto — troppo impassibile per abbassarsi a litigare con qualcuno.

Adesso ero in fuga dalla mia prigione, con un obiettivo ben preciso in mente: raggiungere il Quarantena Party, la festa che avrebbe celebrato la fine del mondo. Per poche ore, quella notte, mi sarei sentito di nuovo vivo; poi, sarei tornato a interrarmi nel mio appartamento, senza nulla da fare se non dormire, mangiare, rincoglionirmi davanti a uno schermo e attendere di scoprire ciò che la sorte riservava all'Italia e al mondo.

L'aria della notte era fresca e inebriante come vino. Correvo senza sentire la stanchezza, mentre intorno a me tutto rimaneva immobile: la strada era un fiume di asfalto vuoto, ai lati del quale due file di automobili stavano arenate come inutili reliquie di un'era passata; i portoni fiancheggiati dai citofoni sembravano bocche spalancate su dei mausolei. Gli alberi, alti e già pronti a rivestirsi per la primavera, sorvegliavano in silenzio le strade.

Una festa per la fine del mondoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora