Solo qualche ora prima sentivo la mancanza di un bel calice di Maliele, del suo sapore fresco ma non troppo dolce che mi rilassava le sere d'estate, quando mi intrufolavo sulle mura della torre ovest del castello. Potevo bere e starmene rilassato a guardare il mare luccicare alla luce lunare in lontananza. Ma ora ero lontano da tutto questo. Avevo ucciso un uomo. Certo non ero stato un bravo ragazzo a casa, ma uccidere, uccidere significava mettere fine a tutto. Non c'era possibilità di tornare indietro.
Io non sapevo che fine facessero le anime e se effettivamente avevamo un'anima, o eravamo solo corpi con una coscienza temporanea. In ogni caso avevo fatto qualcosa che aveva lasciato terribilmente un segno.
Quello che improvvisamente si apriva davanti a me come un baratro a cui non sapevo dare risposta era: tutto qui? Tutto qui. E' così facile mettere fine a tutto? Un conto è fare degli scherzi, provocare dei danni. In questi casi c'era sempre la possibilità di tornare indietro, per quanto grave fosse il danno. Ma ora quell'uomo non aveva più la possibilità di tornare indietro. Era così facile perdere questa possibilità? Se avesse saputo che stava per morire, mi avrebbe attaccato lo stesso? E se io avessi fatto quella fine? Che cosa avrei lasciato dietro di me? Se effettivamente mi guardavo indietro, cosa avevo fatto dei miei quasi primi 20 anni di vita? Nulla. Era come non fossi esistito. E se era come non fossi esistito, che senso aveva esistere? Questo andava ben oltre alla noia. Questo andava diritto al punto per cui io stesso ero venuto al mondo. Se non avevo nessun significato, tanto valeva non venissi al mondo. Tanto valeva morissi. Sparissi esattamente come ero nato.
Avevo pensato questo, mentre correvo tremando tra gli alberi. Per i primi 5 minuti avevo corso dritto davanti a me, respirando come se dovessi chiedere a qualcuno il permesso per farlo, di soppiatto, nonostante ne avessi bisogno. Non ne avevo il diritto. Avevo guardato avanti, senza realmente vedere. Il mio cervello si era programmato automaticamente per correre lungo il sentiero, in mezzo agli alberi, cercando di evitare qualsiasi altro incontro.
I miei occhi mi continuavano a mostrare quella scena, il sangue che mi macchiava le mani, che macchiava la casacca dell'uomo. Mi passai una mano sugli occhi, e li chiusi, cercando di grattare via quelle immagini. Poi inciampai e caddi. Non opposi nemmeno resistenza, non lo meritavo. Chi ero io per rivangare il diritto di vivere, di non soffrire, dopo che io per primo avevo tolto questa possibilità a qualcun altro? E poi, io che non avevo alcun merito, alcun motivo per essere preferito a quell'uomo. Sembrava proprio uno scherzo. Un nulla come me, che toglieva la vita a un uomo che credeva in qualcosa. Anche solo il denaro. Io in cosa credevo? In niente di niente.
Ma non ero inciampato in una semplice radice di un albero. Avevo fatto un salto di qualche metro e per poco non mi ero spaccato una gamba. All'ultimo avevo aperto gli occhi, mi ero aggrappato da qualche parte ed ero riuscito a non ammazzarmi.
Me ne stavo ormai da cinque minuti, con la schiena appoggiata a terra, una caviglia dolorante e lo sguardo volto al cielo. Avevo le lacrime agli occhi.
Come potevo desiderare ancora di vivere? Non avevo il diritto di desiderare, io che non avevo fatto altro che fare quello che volevo, che non avevo fatto altro che prendere, senza mai una volta dare, che non avevo fatto altro che essere un peso per gli altri. Avrei dovuto solo sparire.
Eppure le lacrime mi scendevano ai lati del viso. Volevo vivere. Non semplicemente esistere. Ma ne avevo il diritto? Potevo, a quel punto desiderare ancora qualcosa? Se io fossi stato Dio, e avessi avuto a che fare con un essere come me, lo avrei abbandonato al suo destino. E se Dio non mi puniva per tutto il tempo che avevo avuto e per il nulla che avevo combinato, di serio, di meritevole, allora mi sarei punito da solo. Sarei rimasto lì, a combattere contro il mio corpo che voleva vivere, e avrei sofferto lì, in quel dirupo.
Ad un tratto sentii un rumore, un verso acuto. Ero sicuro che fosse l'aquila. Mi aveva trovato. Vagai con gli occhi per il cielo. Non c'era nessun rapace che volava. Poi qualcosa attirò il mio sguardo in basso. C'erano due piccoli frutti bianchi appesi poco sopra un ramo. Poi mi resi conto.
Non erano frutti bianchi. Erano occhi. Enormi. Appartenevano a un gufo, il cui corpo era nascosto da rami, foglie e dall'ombra. Mi fissavano.
Mai come in quel momento mi sentii sotto esame. Mi vergognai per essere lì fermo, ad aspettare una morte che mi pareva logica e sensata. Non avevo nemmeno il diritto di decidere come morire. Come potevo permettermi di stare lì a poltrire? Dovevo fare qualcosa. Fino a quando ero in vita dovevo fare qualcosa, che mi permettesse in qualche modo di rimediare, anche solo parzialmente ai 20 anni di vita inutile che avevo sprecato.
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[CONCLUSO] Il Principe Oscuro - La Maledizione dei 12 Jano [SAGA]
FantasyTutti a corte sanno che la causa degli strani incidenti a palazzo è Elia, il secondogenito della famiglia reale: gli alloggi dei servitori in fiamme, i cavalli reali mutilati dall'acido, la distruzione delle statue nel parco reale. Ma per il Princi...