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"Prossima fermata: Milano centrale." Una voce metallica mi fa svegliare di colpo. Sobbalzo e sbatto la testa contro il finestrino del treno.
Realizzo che tra qualche secondo dovrò scendere, quindi infilo il piumino nero e afferro il mio zaino. Sbadiglio rumorosamente e una signora seduta a qualche posto da me mi fulmina con lo sguardo.

Non sono dell'umore, sorè.

Quando il treno si ferma aspetto qualche secondo prima di scendere, alcune persone spintonano qua e là per riuscire ad uscire e io le osservo dal mio comodissimo sedile.
Quando la marmaglia di gente è ormai sparita, esco anche io.
Una folata di vento gelido mi fa rabbrividire, chiudo la giacca e cerco di portare delle ciocche di capelli dietro l'orecchio, il vento però non contribuisce, scompigliandoli di nuovo.

Oh, fanculo.

Cammino tra le persone tranquillamente, al contrario di alcuni di loro, che vanno di fretta. Un uomo in giacca e cravatta mi passa accanto sfrecciando, tiene una valigetta nera in una mano e un costoso cellulare nell'altra.
Lo osservo e mi chiedo dove vada così di fretta. Sono le sei di sera, probabilmente ha appena finito di lavorare.

Esco dalla stazione e immediatamente accendo una sigaretta. La porto alle labbra e aspiro il fumo profondamente, poi lo getto fuori in uno sbuffo.

Colpevole.

Cinque anni di reclusione.

Queste parole mi vorticano in testa da ormai tutta la settimana. Sì, sono stata a Roma più del previsto.
Mi porto le dita alle tempie e sbuffo frustrata.
'Cinque anni passano in fretta, dai!' Ripenso alle parole che qualche giorno prima ho sussurrato a Federico e ridacchio da sola.
Non è vero. Cinque anni possono sembrare infiniti, soprattutto se ti trovi in prigione.
Getto il mozzicone a terra e lo calpesto con rabbia.

Sta andando tutto male.

Proprio mentre penso questo, come un angelo mandato dal cielo, noto Martina venirmi incontro a passo spedito. Mi guarda con occhi tristi e improvvisamente il senso di colpa mi invade. Non mi sono fatta sentire per una settimana, non ho pensato che potesse preoccuparsi. L'unico messaggio che le ho mandato è stato quello di oggi, ovvero un 'alle sei in punto arrivo in stazione centrale. Qualcuno deve venire a prendermi' scritto in tutta fretta. Ora che ci ripenso sono stata anche abbastanza scortese, ma non penso le importi.
O forse sì?
Insomma, non la conosco poi così tanto, potrebbe essersi anche offesa.

Quando mi arriva davanti ha gli occhi lucidi, mi tira un leggero pugno sul braccio e poi mi soffoca in un abbraccio. Inizialmente rimango rigida, ma poi mi lascio andare e ricambio, appoggio la testa sulla sua spalla sentendo gli occhi farsi lucidi.

È una strana sensazione. Non conosco Martina da molto tempo, eppure sento di aver trovato una persona vera. Sono sicura che lei tenga a me, e di poter contare su di lei.
Non mi sento più sola. Ora ho qualcuno.
In questo abbraccio mi sento a casa, protetta.
Per un attimo dimentico il processo, Federico, quei cinque fottuti anni, il senso di colpa.
Perché quel giorno c'ero anche io. Quel negozio lo abbiamo derubato insieme.
Eppure lui ha deciso di prendersi tutta la colpa, ha deciso di salvarmi.

Cazzo, sono una merda.

"Mi hai fatta preoccupare a morte." La biondina mi distoglie dai miei pensieri, si stacca dall'abbraccio e tira su col naso.

"Mi dispiace, sono successi un sacco di casini e non ho avuto il tempo di farmi sentire." Lei annuisce e si asciuga le lacrime.

"Non farlo mai più." Mi punta un dito contro e io le sorrido.

"Mai più." Lei sorride e poi mi abbraccia di nuovo. Questa volta però si stacca subito e mi fa cenno di seguirla.
Quando arriviamo davanti a una macchina azzurrina, Martina si ferma, estrae un mazzo di chiavi dalla tasca del cappotto e apre la macchina.
Mi siedo sul sedile grigio mentre la bionda occupa il posto del guidatore, sfrega le mani tra loro nel tentativo di riscaldarsi e poi accende quel catorcio.

Durante il viaggio non parliamo, appoggio la testa al finestrino e osservo i bellissimi palazzi del centro lasciare spazio a palazzine vecchie e malandate.
Quando arriviamo a destinazione sta leggermente piovendo e fuori non c'è nessuno.
Io e Martina corriamo fino al portone, cercando di ripararci dalla pioggia con il mio zaino. Inutile dire che ci siamo bagnate ugualmente.
"Gli altri sono da Vincè. Ci andiamo?" Mi chiede.
Sono un po' titubante, mi mancano i ragazzi e vorrei davvero vederli, però mi sento anche in colpa e ho paura di averli fatti preoccupare.
E poi Martina mi ha detto che Vincenzo è arrabbiato, e non mi va proprio di litigare ora.
"Dai Bià stai tranquilla, nessuno è arrabbiato con te." Martina mi picchietta una mano sulla spalla per farmi sentire meglio. "Certo, Vincenzo a parte." Sbuffo.

Rassicurante.
"Non sentirti in colpa, se era una questione importante gli altri capiranno. Non sei tenuta a spiegarci cosa è successo." Le sorrido e mi avvio con lei verso l'appartamento del moro.

Sulle scale entrambe stiamo in silenzio, gli unici rumori che si percepiscono sono quelli della pioggia e delle nostre scarpe che sbattono sugli scalini in cemento.
Arrivate davanti all'appartamento di Vincenzo mi fermo, respiro profondamente, e poi entro.

Mi blocco sulla soglia e osservo le persone presenti nella stanza. Per ora nessuno si è accorto del nostro arrivo, tutti troppo occupati ad osservare una partita di fifa, che sembra si stia svolgendo tra Loris e Marco.
Li osservo per qualche secondo e poi mi faccio coraggio, tossico per attirare la loro attenzione.
Il primo a posare lo sguardo su di me è Luigi, appena incontra i miei occhi spalanca i suoi e poi sorride.
Gli altri fanno lo stesso: inizialmente rimangono stupiti e poi sorridono.

Tutti eccetto Vincenzo, ovviamente.

Lui non sorride.

-

Martina:

Martina:

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Rozzano || PakyDove le storie prendono vita. Scoprilo ora