Condanna

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Sorpassai il cancello del mio liceo e tirai dritto in direzione del portone d'ingresso.

La traversata, come ogni mattina da cinque anni, la si poteva definire un incontro di football americano. Rimanere vittima di qualche spallata, gomitata e, sporadicamente, calcio non era poi così difficile.

Ricordavo ancora gli sguardi di superiorità che durante il primo anno mi ero dovuta sorbire dai ragazzi di quarta e quinta.

C'era da dire, però, che al momento mi sentivo io quella superiore ai cosiddetti primini.

Probabilmente era un meccanismo che si attivava spontaneamente nel cervello di ogni studente che, avanzando di anno in anno, vedeva coloro che dovevano ancora affrontare quelle classi come delle piccole vittime ignare.

Mentre superavo un gruppetto di fumatori, spostai distrattamente lo sguardo sulla sinistra. Ed eccolo lì, il maleducato.

Riccardo Sodini se ne stava in compagnia del suo branco di amici con una cuffietta in un orecchio e lo zaino mollemente appoggiato su una spalla. I suoi capelli biondo scuro sembravano assorbire i raggi del sole, rendendo più vivo il loro colore.

Distolsi lo sguardo e continuai a camminare verso la mia meta.

Avevo già sprecato fin troppi secondi per concedergli quell'occhiata.

Quando salii in classe tirai un sospiro di sollievo. Per mia fortuna la professoressa non era ancora arrivata, o avrei dovuto giustificare l'ennesimo ritardo.

Io e la puntualità avevamo vite parallele, non ci saremmo mai incontrate. Era matematicamente impossibile.

Per di più la professoressa Brodoli era particolarmente severa sui ritardi dei propri alunni, ma estremamente indulgente con i suoi. Più volte era capitato che arrivasse dieci o persino quindici minuti dopo il suono della campanella.

Era odiosa da quel punto di vista, ma estremamente brava a spiegare la sua materia: letteratura italiana.

Probabilmente era il rispetto che nutrivo nei suoi confronti a spingermi ad accettare ogni rimprovero per i ritardi.

In fondo, dovevo ammetterlo, provavo del sano affetto per quella sessantenne ligia al dovere e dal pugno d'acciaio.

Mi accomodai al mio banco in prima fila, accanto alla finestra, e mi girai verso i due dietro. << Buongiorno tipe losche >> salutai le mie amiche, piegate sul banco a copiare gli esercizi d'inglese. << Da chi lo avete preso? >> domandai indicando col mento il libro in mezzo a loro.

Francesca alzò la testa e mi rivolse un sorriso furbo. << Da Giacomo. >>

Giacomo Grandi, il secchione della classe, aveva una cotta clamorosa per lei. Lo avevamo scoperto in seconda superiore, durante una lezione di ginnastica.

Ruggero Urri, il classico tipo chiassoso della classe, lo aveva urlato ai quattro venti.

Subito dopo avevamo assistito ad un inseguimento epico, al termine del quale Giacomo era letteralmente saltato addosso all'amico per metterlo KO.

Da quel momento Giacomo non aveva potuto che farsi avanti e chiedere a Francesca di uscire.

La loro era una relazione strana. Continuavano ad uscire, ma non li si poteva definire una coppia fatta e finita. Ero sicura che se fosse stato per Giacomo a quell'ora sarebbero stati fidanzati a tutti gli effetti, era la mia amica a tenerlo sulla corda.

Oltretutto Giacomo non era nemmeno brutto. Capelli castani, occhi di una calda sfumatura marrone, lineamenti fini da angioletto ed un corpo asciutto, anche se non muscoloso. Ma, soprattutto, era garbato ed educato, due qualità erroneamente sottovalutate.

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