Capitolo 3

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A volte ripenso alla mia vita. A tutto quello che ho passato. Non voglio lamentarmi, o fare la vittima. Dico solo che è stata dura. Una continua, lunga lotta, una di quelle guerre che si portano avanti sapendo che perderai. Ma tu combatti lo stesso, perché alla fine un po' ci speri sempre. Che venga qualcuno a salvarti, intendo. Ironico, no? Ero io la Salvatrice, nessuno poteva salvarmi. Dovevo cavarmela da sola. Una lezione che ho imparato molto presto.

Poi è arrivato lui. Sai, io credevo veramente di amarlo. O almeno... be', volevo amarlo. Ora posso ammetterlo. Non ha più senso nascondere la verità. Ho perso Neal, e mi vergogno a dirlo, ma l'ho sostituito. Neal lo amavo. Anche lui mi amava. Per questo stavo così male, volevo così tanto che tornasse da me... Ma lui non c'era, e Killian era lì. In tutta onestà, non credevo sarebbe durata. Poi lui si è innamorato, e dirgli di no è diventato sempre più difficile. E io ero così stanca di cavarmela da sola. Così stanca.


Capitolo 3

L'acqua la disturbava. C'era qualcosa che le impediva di muoversi normalmente nelle sue vicinanze. Cosa fosse, non ne aveva idea. Forse una vibrazione, una frequenza che entrava in conflitto con la sua, o almeno così la percepiva.

La Jolly Roger non era più trasparente, non ai suoi occhi. Salì sul ponte e poi, come era accaduto a casa di sua madre, si ritrovò sottocoperta senza sapere come, né perché.

Killian era nel suo letto. Dormiva, una bottiglia di rum vuota ancora stretta in mano. Percepiva il suo dolore come una stilettata dritta al cuore. Rabbrividì e tornò sul ponte. Osservò il sole colorare del rosa dell'alba le piccole onde sul mare, il vento leggero attraversarla senza scompigliarle i capelli. Toccò la balaustra, provò a sentire il legno sotto le dita. Non sentì niente.

Tremò sotto il peso delle proprie emozioni. Scomparve da lì e, in qualche modo, si ritrovò nella foresta, davanti al pozzo. Si guardò intorno, ma non c'era nessuno oltre lei e una lepre, che saltellò via, spaventata dalla sua improvvisa presenza.

«Perché qui?» si domandò. Non trovò la risposta.

Dopo qualche minuto di indecisione, si sedette accanto al pozzo, poggiando la schiena sulle pietre arrotondate e ricoperte di muschio. La pietra un po' la sentiva, il muschio no. Era come aria fresca sulla schiena. Si abbracciò le gambe e chiuse gli occhi, e per un po', il tempo di un giorno assolato, finse di poter ancora respirare.

Era sera quando si riscosse. Il tempo era passato senza che lei se ne accorgesse. Si rialzò senza fatica, senza sentire le gambe intorpidite come avrebbe dovuto, o la schiena rigida, e nemmeno il proprio peso, la fatica di sollevarsi da terra. L'unica cosa che sentiva, in quel momento, era la tristezza, la malinconia di non essere più.

Si avviò lentamente verso la città. Questa volta, fece attenzione agli sbalzi di energia, a ciò che provava, a ciò che desiderava, perché suppose fosse stato quello a farla apparire in determinati luoghi all'improvviso. Arrivò alla strada camminando. Al limitare della foresta, si concentrò. Se aveva ragione, se la sua magia aveva effetto anche in quel momento, in quello stato, allora poteva controllarla.

Chiuse gli occhi e visualizzò la terrazza del Granny's. Quando li riaprì, era lì. Così, di colpo, senza preavviso. Era ben diverso dalla magia che conosceva, e tuttavia era riuscita a controllarlo. Un piccolo, minuscolo sorriso le stirò le labbra.

Si guardò intorno, ma era ancora sola. Sentiva le persone sotto di sé, percepiva la loro presenza come una frequenza bassa e carica di sconforto. Sapeva che era a causa sua. In parte, tutto quel dolore la commoveva. Per la maggior parte, la devastava. Avrebbe dovuto portare un lieto fine a Storybrooke, e invece aveva portato solo dolore. Granny, Leroy, Archie... tutti lì sotto erano in lutto per lei.

«Dovevo dirgli di fare una festa» sussurrò al vento che non poteva toccarla. Sbuffò, gli occhi rivolti al cielo. Quante altre cose avrebbe dovuto dire, a tutti loro. A Leroy di smetterla di bere, tanto per dirne una. Ad Archie di sciogliersi un po' e di smetterla di stare solo con Pongo. A Granny di farsi dare da Regina la ricetta delle lasagne.
Scosse la testa. Restare lì era un azzardo, qualcuno avrebbe potuto vederla. Percepiva che coloro ai quali teneva di più erano lontani, nelle loro case (o navi), tranne Henry che era ancora con i suoi. Aveva percepito il dolore di Regina quel giorno maledetto, quando si era separata dal suo corpo morto. Non si stupiva del fatto che volesse stare da sola, ma di quanto stesse soffrendo per lei. Questo non se lo aspettava.

All'improvviso un telefono che squillava le entrò nelle ossa. Sentì la conversazione come se avesse l'apparecchio lì davanti.

Era sua madre. Parlava piano, con la voce arrochita dal pianto. Granny era dovuta uscire dal diner per riuscire a sentirla.

«Come stai?»
«Come vuoi che stia?»
«Snow, mi dispiace così tanto...»
Mary Margaret trattenne a stento un singhiozzo. Granny attese pazientemente che si calmasse.

«Lei non vorrebbe vederci così. Io...» un'altra pausa, un altro singhiozzo soffocato «Domani ci sarà il funerale. A mezzogiorno. Puoi dirlo tu agli altri?»

«Certo. Non preoccuparti di niente. Cerca di riposare.»

La risposta fu inintelligibile. Mary Margaret chiuse la chiamata. Granny rimase ferma lì fuori ancora per qualche minuto, sotto lo sguardo sconvolto di Emma, poi tornò nel locale, senza accorgersi delle nuvole che si accumulavano rapide nel cielo notturno.

Il primo tuono si abbatté su Storybrooke, facendo vibrare pareti e finestre. Le luci persero forza, e la riacquistarono velocemente. Anche troppo, per qualche istante. La pioggia iniziò a cadere, fredda e pesante, fastidiosa. Non la toccava. Le passava attraverso come indolori scariche di energia elettrica.

Rimase suquella terrazza tutta la notte, nascosta nell'angolo più buio, a sentire quelleparole rimbombarle nella testa come i tuoni tra le nubi.

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