Capitolo 6

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Quella mattina, quando mi svegliai, il sole era già alto nel cielo, e un'occhiata all'orologio mi fece saltare giù dal letto come una molla. Ero in ritardo. Odio il ritardo, odio dover fare tutto in fretta. Mi fa sentire fuori controllo, come se la giornata mi stesse scivolando tra le dita ancora prima di iniziare.

In fretta e furia, mi infilai la divisa, raccattai i libri che avevo lasciato sparsi sulla scrivania la sera prima e mi precipitai giù per le scale. La casa era vuota. Zayn era già andato a scuola, e mamma e papà erano al lavoro. Ottimo, pensai, non mi restava che prendere il bus.

Non c'era niente che odiassi più del ritardo, ma quel giorno la frustrazione era amplificata dal pensiero di dover affrontare un'altra giornata al Collodi, dopo tutto quello che era successo ieri. Arrivata alla fermata, mi resi conto che il bus sarebbe passato solo tra cinque minuti, ma quei cinque minuti sembrarono eterni. Cercai di calmarmi, ma la mia mente continuava a rimbalzare tra i ricordi della giornata precedente e il per-iero di cosa mi aspettasse oggi.

Finalmente, il bus arrivò, e mi fiondai al suo interno, prendendo posto vicino al finestrino. Il viaggio sembrò infinito, e ogni minuto che passava mi faceva sentire sempre più tesa. Quando finalmente scesi davanti alla scuola, l'orologio segnalava che mancavano solo pochi minuti all'inizio delle lezioni.

Attraversai i cancelli e mi affrettai verso l'entrata, ma notai subito qualcosa di strano: i corridoi, solitamente pieni di studenti indaffarati a prendere i loro libri o a chiacchierare, erano completamente vuoti. Una sensazione di disagio cominciò a crescere dentro di me. Ero davvero in ritardo.

"Stai sbagliando," sentii dire da dietro di me. Mi voltai di scatto e lo vidi: uno dei ragazzi di ieri, quello alto con i capelli ricci e gli occhi magnetici, che mi fissava con un sorriso appena accennato, ma carico di disprezzo.

"Come scusa?" risposi, confusa e sulla difensiva.

"Stai sbagliando a venire qua," ripeté lui, il tono basso ma minaccioso. "Ti rovinerai l'esistenza se rimani qui."

Mi sentii improvvisamente gelare. "Non capisco cosa intendi," dissi, cercando di mantenere la calma, anche se dentro di me
stava crescendo l'ansia.

Lui fece un passo avanti, avvicinandosi pericolosamente. "Questo ambiente non fa per una come te," disse, scandendo le parole come se volesse che ogni sillaba penetrasse nella mia mente. Il suo sguardo era pieno di disprezzo, e sentii la paura mischiarsi alla rabbia.

"Cosa intendi con 'una come me'?" chiesi, ma lui non rispose subito. Continuava a fissarmi come se volesse squarciarmi l'anima con quegli occhi.

"Posso sapere chi sei?" chiesi, cercando di mantenere la voce ferma nonostante il cuore che mi martellava nel petto.

"Lascio che tu lo scopra da sola," disse, inclinando leggermente la testa. "Ma non ti preoccupare, non avrai molto tempo per farlo. Se fossi in te, me ne andrei prima di pentirmi di essere venuta."

Detto questo, si voltò e si allontanò, lasciandomi lì, paralizzata dal mix di emozioni. Lo osservai sparire dietro l'angolo, il suono dei suoi passi che risuonava nei corridoi vuoti.

Rimasi immobile per qualche istante, cercando di riprendermi da quel confronto surreale. Chi era quel ragazzo? E perché sembrava così intenzionato a farmi sentire fuori posto? Qualcosa in lui mi diceva che non era solo una questione di bullismo scolastico; c'era dell'altro, qualcosa di più oscuro e inquietante. Ma non avevo tempo per pensarci ulteriormente. Ero già in ritardo, e non potevo permettermi di rimanere lì a riflettere su cosa fosse appena successo.

Entrai di corsa in classe e mi scusai per il ritardo. Il professore mi guardò con un'espressione severa, ma non disse nulla.

Mi sedetti accanto a Martina, che mi accolse con un sorriso preoccupato.

"Tutto bene?" mi chiese a bassa voce mentre il professore continuava la lezione.

"Sì, è solo che mi sono svegliata tardi," mentii, ancora scossa dall'incontro appena avuto. "Ho dovuto prendere il bus, e sono arrivata di corsa."

Martina annui, ma sembrava notare che qualcosa non andava. "Sei sicura? Sembri un po'... turbata."

"Sono solo un po' nervosa per il ritardo," risposi, cercando di rassicurarla. "Non è il modo migliore per iniziare la giornata."
Lei annuì di nuovo, ma non sembrava del tutto convinta. Decisi di non dire nulla riguardo al ragazzo nel corridoio. Non volevo sembrare paranoica o debole, e avevo bisogno di tempo per capire cosa fosse davvero successo.

La mattinata proseguì in modo quasi normale, ma il mio pensiero tornava continuamente a quell'incontro. Sentivo come se fossi sorvegliata, come se quegli occhi magnetici fossero ancora puntati su di me, da qualche angolo nascosto.

Dopo la pausa, quando tornai in classe, il sangue mi si gelò nelle vene. Sul muro, sopra il mio banco, c'era una scritta fatta con un pennarello nero: "Araba di merda".

Mi sentii raggelare, il cuore che batteva all'impazzata. Sapevo chi era stato. Lo sentivo dentro di me. Quel ragazzo, con quegli occhi magnetici e il sorriso velenoso.

Avevo già visto questo tipo di odio, a Milano, e ora si ripeteva.
Martina e Andrea mi si avvicinarono subito, guardando la scritta con espressioni orripilate.

"Che schifo," mormorò Andrea, scuotendo la testa.

Martina mi prese per il braccio, cercando di calmarmi. "Non fare nulla, Liyana. Sono solo dei codardi. Non meritano la tua attenzione."

Ma non riuscivo a trattenermi. La rabbia, la frustrazione, il dolore di essere sempre giudicata per le mie origini si mescolarono insieme, spingendomi oltre il limite.

"No," dissi con voce tremante, "devo affrontarli. Non possono farla franca."

Prima che Martina o Andrea potessero fermarmi, mi diressi verso il corridoio. Li sentivo dietro di me, cercando di calmarmi, ma ormai avevo deciso. Il gruppo era lì, proprio dove mi aspettavo di trovarli, il ragazzo dai capelli ricci in mezzo a loro, come se stesse aspettando il mio arrivo.

Mi avvicinai a lui e, senza pensarci due volte, lo spintonai con forza. "Qual è il tuo problema? Cosa ti ho fatto per meritarmi questo?"

Lui mi guardò, il sorriso sardonico che gli si dipinse sul volto mi fece venire voglia di urlare. Gli altri del gruppo iniziarono a ridere, e uno di loro disse: "Guarda come si arrabbia. È proprio come dicono, gli arabi non sanno controllarsi."

"Voi siete solo dei codardi," sibilai, ma la mia voce tremava di rabbia e frustrazione.

"Pensate di essere superiori solo perché siete in gruppo? Non siete altro che patetici."

Il ragazzo dai capelli ricci smise di ridere e si avvicinò a me, troppo vicino per i miei gusti. "Ti avverto per l'ultima volta," disse a bassa voce, così che solo io potessi sentirlo. "Questa scuola non è per te. Fatti un favore, e vattene prima che le cose peggiorino."

Sentii il mio corpo irrigidirsi, ma non mi mossi. Lo fissai negli occhi, cercando di non lasciarmi intimidire. Poi, senza aggiungere altro, lui e il suo gruppo si allontanarono, lasciandomi lì, tremante di rabbia e frustrazione.

Sentii il mio corpo irrigidirsi, ma non mi mossi. Lo fissai negli occhi, cercando di non lasciarmi intimidire. Poi, senza aggiungere altro, lui e il suo gruppo si allontanarono, lasciandomi lì, tremante di rabbia e frustrazione.

Martina e Andrea si avvicinarono subito, i loro volti pieni di preoccupazione. "Stai bene?" mi chiese Martina, appoggiando una mano sulla mia spalla.

Annuii, anche se non mi sentivo affatto bene. Ero esausta, delusa e soprattutto arrabbiata. Non solo con quei ragazzi, ma anche con me stessa, per aver lasciato che mi colpissero così tanto.

Mentre tornavamo in classe, un pensiero mi attraversò la mente: forse andare alla festa non sarebbe stato solo un modo per cercare di integrarmi, ma anche per dimostrare che non avrei lasciato che questi bulli mi buttassero giù.

Decisi lì, in quel momento, che sarei andata a quella dannata festa.

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