67. Catapultata nel buio.

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Il giorno dopo, mio padre se ne andò.
Giusto il tempo di fare le valigie, per scomparire in un qualche lussuoso appartamento di Madison.

Non avevo idea di quando sarebbe tornato, di quante settimane avrei dovuto passare sola, in quella casa che appariva tristemente grande, vuota.
In ogni caso, preferivo di gran lunga la solitudine della notte di Chicago a quella che avrei dovuto affrontare ventiquattr'ore su ventiquattro a Madison.

Giuro, avevo provato a sistemare le cose con l'uomo che si definiva mio padre; forse stupidamente, ma avevo cercato di ridurre la distanza formatasi tra noi, avevo tentato in qualche modo di capirlo.
Tutto ciò che avevo ottenuto erano dannate bugie, e di quelle, francamente, avrei fatto volentieri a meno.

"Quindi? Che è successo?" domandò Caleb, sedendosi nervosamente sulla sabbia.

Era ormai inverno, ma quella fascia di Chicago bagnata dalle acque del lago Michigan restava sempre incredibilmente affascinante.
Se poi avevi affianco Caleb Moore, la bellezza del panorama cresceva notevolmente.

A scuola non avevamo avuto sufficiente tempo per parlare, quindi aveva deciso di portarmi su quella spiaggia, così da spiegargli il motivo della mia stranezza.
"Stamattina non ti brillano gli occhi, devo preoccuparmi?" mi aveva detto , appena messo piede nella sua auto, alle otto del mattino. Gli bastava uno sguardo per insediarsi nei miei pensieri, prendere il controllo delle mie emozioni, come fossero sue.

Lo amavo anche per questo, per quel modo composto e silenzioso che aveva di entrarmi nell'anima, quando neanche io ci riuscivo.

"Mio padre è partito stamattina diretto a Madison. Per un po' di tempo non tornerà" spiegai, torturandomi un labbro.
I suoi lineamenti si contorsero per lo stupore, mentre una mano stringeva i capelli mori in un pugno serrato.
"Ti ha lasciata lì da sola?" Annuii.
"Voleva che lo seguissi, ma non ho accettato" dalle sue labbra sfuggì un sospiro frustrato.

"Ha troppo da nascondere...deve essersi cacciato in qualche guaio" confessai.
Distolse lo sguardo. Un semplice rapido movimento di occhi che da lui eseguito assumeva un significato particolare.
Non aveva il controllo della situazione.
Qualcosa gli sfuggiva. Qualcosa di fondamentale.

"Cosa ti spinge a sospettare?" lo informai della questione delle armi e delle altre stranezze degli ultimi giorni passati insieme.
"Devi stare attenta, Ky" disse.
"L'idea di saperti da sola in quella casa mi fa ribollire il sangue" posai le dita sulle sue, sperando che quel tocco potesse rassicurarlo, ma ottenni una reazione diversa da quella che mi aspettavo.

"Verrò a stare da te" asserì, facendo schiudere le mie labbra per la sorpresa. "Come?"
Dal modo serio in cui mi guardò, capii che non si trattava di un scherzo.
Non mi aveva chiesto il permesso, né cosa ne pensassi. Era ciò che voleva, e non avrebbe trattato.

"Che c'è? Non ti eccita l'idea di avermi ogni sera nel tuo letto, a completa disposizione?" passò la lingua sul suo labbro superiore.
"Sei proprio uno stupido" ridacchiai.
"Ma averti accanto è la cosa più bella che io possa volere" rivelai con il cuore in mano.

Il suo volto si fece serio. Afferrò il viso, stingendomi le guance rosate, e mi baciò, lentamente. Una dolce tortura che riempiva il mio corpo di brividi.
Le nostre labbra si separarono appena, quanto bastava per consentirmi di parlare.

"Non so cosa c'è dietro tutta questa storia, dietro quest'ansia che sembra logorarti..."
poggiai la fronte sulla sua.
"Ma comunque vadano le cose, io non smetterò di lottare per noi"

I suoi occhi blu e profondi come l'oceano, si illuminarono: una bellezza devastante.

"Sono cambiate così tante cose da quando ci siamo conosciuti" disse, sorridendomi.
"Qualche mese fa eri davvero una foglia d'autunno. Bastava un soffio per farti cadere. Sembrava che avessi paura anche della tua stessa ombra"
Annuii, ricordavo bene quei momenti bui. "E adesso, guardati...Sei una guerriera, una donna" Prese un respiro.
"La più bella che io abbia mai incontrato" quelle parole mi tolsero il fiato.

"Tu mi hai raccolta e curata senza neanche rendertene conto"
Gli strinsi la mano.
"Mi hai ridato la vita, Caleb Moore"
Una lacrima scappò via dalle mie ciglia lunghe. Lacrima che le sue labbra assorbirono l'attimo dopo.

"Andiamo, mio piccolo angelo. O finirai per emozionare anche i miei demoni"

***

Io e Caleb trascorremmo quella settimana nel modo più sereno che ci fosse possibile.
Era chiaro che avessimo paura. Paura di quello che sarebbe successo se tutto ciò che avevamo costruito fosse svanito.
Ma noi, mano nella mano, avevamo deciso di affrontare quei timori insieme, giorno dopo giorno.

La sua presenza in casa era stata una vera salvezza. Non avevamo mai trascorso così tanto tempo insieme, eppure sembrava non essere mai abbastanza.
Di lui, non sarei potuta mai essere sazia.

Le giornate passavano in fretta, aldilà di alcuni momenti di tensione, ci divertivamo insieme.
Io cucinavo, mentre a lui toccava pulire la casa. Non aveva idea di come si facesse, visto che nel loro appartamento, il lavoro sporco era nelle mani di Bret, ma mi andava bene così. Preferivo accontentarmi; meglio preparare una pizza che pulire il gabinetto.

Giorno dopo giorno, emergevano nuovi lati di lui, che completavano un puzzle già di per sé perfetto. Un puzzle di cui mi innamoravo sempre di più, irrimediabilmente.

"Cal, vado a fare la spesa" strillai dalla cucina, affinché mi sentisse dall'altra parte della casa.
"Ok, a dopo" aprii la porta.
"E compra un pacco di preservativi" ridacchiai, portandomi una mano alla fronte, mentre le mie guance si tingevano inevitabilmente di rosso.
Poi presi la strada per il supermercato.

Una decina di minuti a passo svelto sarebbero bastati per arrivare. Dovevo fare presto o avrebbero chiuso vista l'ora. Aumentai il ritmo dei miei passi, muovendo le mie gambe effettivamente corte, il più veloce possibile.

C'era qualcosa però che mi disturbava.

Avevo come l'impressione che il ticchettio delle mie scarpe sull'asfalto del marciapiede, non fosse l'unico, e che qualcuno stesse seguendo il mio stesso percorso, per di più con lo stesso andamento. Mi guardai dietro le spalle due, tre volte.

Vidi solo l'oscillare dei rami degli alberi al soffio del vento.

Afferrai il cellulare e digitai il numero di Cal. Sei, forse sette squilli.
Nessuno rispose.
Lasciai un messaggio alla segreteria telefonica, continuando a camminare con un ritmo rapido.

"Cal, so che può sembrare una sciocchezza..." presi un respiro profondo, abbassando la voce per paura che qualcuno potesse sentirmi.
Forse tutta quella storia iniziava a farmi diventare pazza.
"Ma ho come l'impressione che qualcuno mi stia seguendo" dissi tutto d'un fiato. "Richiamai se puoi, ok?" Riattaccai, svoltando l'angolo della strada.

Fu quando intravidi l'insegna rossa del supermercato che d'improvviso la realtà divenne buia. Tutto si spense.
L'ultima cosa che sentii, fu una mano spingere brutalmente un fazzoletto contro la mia bocca.

Poi l'oscurità.

La tempesta che mi ha travolto.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora