Fine

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Lo disse in modo così educato. Così misurato.

Poteva dire che non l'avrebbero vista mai più.

Poteva dire che la sua vita era finita a diciannove anni.

Poteva dire che era morta.

Ma no. Non disse niente di tutto questo.

Uscì dalla sala operatoria, chinò il capo e disse "Non ce l'ha fatta".

"Non ce l'ha fatta"

Complimenti! Fantastica scelta di parole. Faceva prima a dire che aveva perso una partita. "Non ce l'ha fatta, la squadra Tumorale è troppo forte e ha segnato così tanti goal che ormai la rete si è distrutta. Il portiere giace a terra, sfinito, sconfitto, pieno di lividi. La squadra vincitrice esulta in campo. Urla laceranti da parte loro". La squadra sconfitta scompare. Diventa più trasparente ogni istante che passa, e svanisce accompagnata dall'anima della ragazza che correva verso il vento.

Luke non disse niente. Non rispose a quelle parole schifose, non pensò. Si alzò e cominciò a correre. Corse, corse, corse. Ma non raggiunse il vento. Raggiunse invece una montagna lontana da casa sua, raggiunse un ponte che non era un ponte, scavò nella terra che solo poco tempo prima quella stessa ragazza che ora non esisteva più aveva appiattito sopra il legno di una scatolina che aveva imprigionato il battito del suo cuore. Estrasse quel piccolo forziere, pensò al primo numero che gli veniva in mente e gli tolse una cifra. Buttò a terra il lucchetto, prese il foglietto che riportava una V sopra. Lo aprì, macchiandolo di lacrime. Lesse. Si ricordò la propria frase. "Scrivi ciò che pensi". Rilesse. Rilesse. Rilesse. Rilesse quell'unica parola cento volte. Osservò ogni piccolo particolare della grafia, ogni sbavatura dell'inchiostro, ogni ghirigoro sull'estremo di ogni lettera. Lesse quella parola con gli occhi e con le orecchie, ne sentì il profumo e il sapore. Un vuoto cominciava ad aprirsi nel suo petto, la mancanza di quel qualcuno che ormai era un pezzo del puzzle della sua vita. Un vuoto incolmabile.

Si alzò. Prese un sasso e lo scagliò lontano con tutta la forza che aveva. Ne prese un altro. Scagliò lontano anche quello. Prendi. Lancia. Prendi. Lancia. Quando i sassi furono finiti tirò il lucchetto, poi la scatola di legno, poi la penna argentata.

Prese a calci e pugni l'albero che aveva più vicino, le sue nocche si fecero rosse mentre la corteccia si staccava piano. Vi si appoggiò con la schiena, il respiro affannoso e le mani che stringevano i capelli.

Spalancò gli occhi, tentando di vedere qualcosa attraverso le lacrime.

Poi li chiuse, pensando che sarebbe stato inutile poter vedere, se quella ragazza non c'era più.

E pensò a quel maledetto scrittore, che aveva ucciso una stella.

Batté più volte la testa contro il tronco dell'albero.

Poi urlò.

L'urlo più forte che avesse mai emesso.

Un urlo di odio.

Un urlo di disperazione.

Un urlo di nostalgia.

Un urlo di amore.

Un urlo che rimpiangeva tutti i baci che non le avrebbe mai potuto dare.

Un urlo che conteneva tutti i ti amo che sarebbero marciti sulla punta della sua lingua.

Un urlo che esprimeva tutti i sentimenti che cercava di far uscire dal suo corpo.

Un urlo per quell'unica parola. La parola che raccoglieva i pensieri di quella ragazza, di quella stella, e che l'avrebbe per sempre ricordata per come era a diciannove anni.

Un urlo per quella parola.

Nuvole

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